Albano Laziale, 14/11/1852 - Roma, 28/12/1930
Il padre, che faceva il sarto, gestiva nella nativa Narni anche una
trattoria, dove gli avventori vedevano il piccolo Antonio disegnare
continuamente con abilità e con passione, e a lui simpaticamente
s'interessavano tanto da far decidere il padre a mandarlo a Napoli per
studiare in quell'Istituto di Belle Arti dove insegnavano Filippo
Palizzi e Domenico Morelli. A Napoli rimase nove anni, dal 1864 al 1873,
e lavorò con tanta lena e tale perizia da conquistare rapidamente
l'ammirazione dei compagni: Edoardo Dalbono, Giuseppe De Nittis, Michele
Cammarano e Francesco Paolo Michetti. Mariano Fortuny y Marsal si
interessò al giovane pittore quando seppe da Domenico Morelli che un
quadretto esposto da un antiquario napoletano, che egli non aveva
resistito alla tentazione di comperare, era opera del Mancini.
In quell'epoca Mancini, che conviveva con Vincenzo Gemito, dipinse
soggetti di genere in alcuni dei quali risentì l'influsso dell'arte
signorile e delicata di Gioacchino Toma e quella vigorosa del maestro
Morelli. Fra essi: La lettura; Il voto; L'ispirazione; Il violinista;
Dopo il duello; Lo scolaro; Il pretino, collocato nei Museo San
Martino di Napoli. Nel 1873 si recò a Parigi e dipinse per la Casa
Goupil finché il paesista olandese Hendrick Willem Mesdag lo fece
lavorare solamente per sé, assegnandogli ampia libertà nella scelta dei
soggetti. Ma quella vita, non gli si confaceva provocandogli dei
disturbi nervosi. Volle tornare a Napoli per ritemprarsi in una casa di
cura. Vi stette quattro anni e a poco a poco riprese a dipingere. Non si
può dire che la sua mente subisse uno stato vero e proprio di
squilibrio; piuttosto, egli viveva assorto in una specie di incantamento
contemplativo che si manifestava nella febbre continua del lavoro.
Guarito e riposato, partì per Parigi e per Londra. Tornò a Napoli nel
1879, e, dopo un periodo di vita misera e stentata, nel 1883 si stabilì
definitivamente a Roma. Nella città eterna fu amato e giustamente
considerato. Pochi, però, compresero la sua arte capricciosa traboccante
che lo induceva ad aggiungere alla sua tavolozza, già indiavolata di
tinte rutilanti, pezzi di stagnola dorata o argentata, pezzi di vetro,
di stoffe, con cui otteneva effetti mirabili se visti a distanza. Nella
sua ultima attività, egli moderò gli eccessi, raggiungendo di mano in
mano una maggiore compostezza ed un equilibrio sempre più nitido. Un
discreto benessere regnava nella sua casa, la sua fama si accresceva di
giorno in giorno, e le soddisfazioni e i trionfi culminarono con la
nomina ad Accademico d'Italia (20 maggio 1929). Ma la sua arte era la
sua gioia, e, così nella giovinezza come nella virilità, all'arte
Mancini tutto voleva e sapeva sacrificare. Non conosceva adattamenti
alle mode e alle maniere del tempo; non sapeva praticare il commercio e
la vendita dei suoi dipinti. Più di una volta aveva barattato un quadro
con una tela bianca, e spesso, stretto dal bisogno, aveva venduto sue
opere per poche lire.
La doviziosa produzione del Mancini non può essere esaurientemente
catalogata, perchè le sue opere sono numerose e sparse in collezioni
italiane e straniere. In circa mezzo secolo di attività le principali
esposizioni del suo tempo hanno avuto presente il Mancini con le sue
caratteristiche e le sue esuberanze nelle diverse espressioni della
tecnica e nei vari atteggiamenti del suo ingegno in continua ricerca del
soggetto, del colore e della forma. Alle Internazionali di Venezia ha
inviato quadri dall'anno della fondazione all'ultimo della sua vita.
Alcune opere fra le più note sono: Ritratto del padre e
Ritratto della signora Pantaleoni, nella Galleria d'Arte Moderna di
Roma; Lydia e Studio di figura femminile, in quella di
Milano; Pagliaccetto e Nudo, nella Galleria "Paolo e Adele
Giannoni" di Novara; Mandolinata e La venditrice, nella
raccolta Tiberio Beretta di Milano; La modella, in quella del
barone Chiarandà a Napoli; Paggio, proprietà dell'ing. Ercole
Norsi di Torino; La figlia del mugnaio, Villa nazionale di Napoli
e Mare di Posillipo, nella pinacoteca dell'on. Alberto Gualtieri
di Napoli; Il calderaio; Bandito; Madonnina; Giovane prigioniera
turca; Ritratto di Tuno Du Chene; Toletta; Ritratto del signor Otto
Messinger; Ciociaretta; II cappello di paglia; Pastorella; Lo scugnizzo;
Geltrude; Brindisi; Suonatrice; Costume rococò; L'innamorata; II
moschettiere; La madre dell'artista (Racc. avv. Cugini, Bergamo),
una numerosa serie di autoritratti, dal tipico sorriso, posseduti in
maggior parte da collezionisti privati. Alla VI Quadriennale Romana
(1952) figurava nella Sezione Pittura italiana della seconda metà
dell'Ottocento, con tre opere.
(A. M. Comanducci)
Nacque il 14 novembre 1852 a Roma da Paolo, sarto nativo di Narni, e da
Domenica Cinti, ternana. Nello stesso anno della nascita del Mancini, la
famiglia si trasferì a Narni. Qui ricevette una prima formazione presso
gli scolopi della chiesa di S. Agostino. Sollecitato dai conti Cantucci
che ne riconobbero la predisposizione all'arte, Paolo inviò il figlio a
lavorare presso un decoratore locale e ben presto, nel 1865,
probabilmente proprio per avviarlo a buoni studi artistici, decise di
trasferirsi con tutta la famiglia (la moglie e i tre figli, il Mancini,
Giovanni e Angelo) a Napoli. Subito impiegato come doratore presso una
bottega al vicolo Paradiso, "vicino alla casa di Giacinto Gigante"
(dagli Appunti autobiografici dettati da Antonio Mancini al nipote
Alfredo negli anni 1925-1930, trascritti in Santoro, p. 257), il
Mancini fu messo a scuola all'oratorio dei girolamini e seguì
contemporaneamente la scuola serale presso la chiesa di S. Domenico
Maggiore, dove incontrò e iniziò a frequentare il coetaneo Vincenzo
Gemito; presso lo studio dello scultore Stanislao Lista presero
l'abitudine a disegnare da calchi antichi e soprattutto dal vero,
ritraendo modelli occasionali trovati in strada e raffigurandosi l'un
l'altro. A questo momento sembra doversi riferire il piccolo monocromo
raffigurante un Giovane scugnizzo nudo (Naples, FL, collezione
Gilgore). Nel luglio del 1865 risulta iscritto all'istituto di belle
arti di Napoli (suoi insegnanti nella scuola di disegno di figura furono
Raffaele Postiglione e Federico Maldarelli), ottenendo già l'anno
successivo il primo premio della scuola di figura.
Come Gemito, il Mancini non si accontentò di cimentarsi nei temi
accademici, ma volse lo sguardo alla realtà circostante, prendendo
spunto dallo spettacolo della vita popolare; il mondo del circo, in
particolare, gli fornì decisive suggestioni. L'approdo di Domenico
Morelli alla cattedra di pittura dell'istituto nel 1868 rappresentò una
tappa fondamentale nella formazione del Mancini il quale, pur estraneo
alle principali tendenze creative e tematiche di Morelli, avrebbe
condiviso col maestro, assorbendo criticamente l'orientamento
antiaccademico dei suoi insegnamenti, la necessità di un'arte saldamente
imperniata sui valori formali. Sollecitato da Morelli, il Mancini ebbe
occasione di formarsi sulla grande pittura napoletana del Seicento,
assimilando a fondo la lezione del naturalismo napoletano nelle chiese e
nei musei della città. Con Francesco Paolo Michetti, anch'egli giunto a
Napoli nel 1868 da Chieti, così come con Gaetano Esposito e Paolo Vetri,
il Mancini strinse un forte e incisivo legame di vita e di lavoro
durante i fondamentali anni di studio a Napoli. Se la prima opera datata
del Mancini (Testa di bambina, 1867: Napoli, Museo di
Capodimonte) si dimostra ancora prova di non significativo respiro,
l'anno seguente egli esordì con un autentico capolavoro, Lo scugnizzo
o Terzo comandamento, raffigurazione di un adolescente lacero e
diseredato contemplante i resti di un festino mondano, la cui opulenta
gaiezza (evocata solo tramite dettagli di natura morta) risulta prossima
al giovane eppure per lui intangibile, sguaiata eppure invidiabile.
L'opera fu esposta poi nel 1875 alla Promotrice di Napoli, ed è da
considerarsi, con Dopo il duello (Torino, Civica Galleria d'arte
moderna), incunabolo della poetica manciniana, ricca nei mezzi pittorici
e fortemente evocativa nelle scelte tematiche. Prodigioso banco di prova
dell'artista sedicenne, fu del resto subito ammirata da Lista e Filippo
Palizzi che la videro nel primo studio del Mancini, ricavato "nel
suppigno di una casa vicina" (Santoro, p. 257), in vicolo S. Gregorio
Armeno. Prese avvio, con questo genere di produzione, la predilezione
per la raffigurazione degli scugnizzi napoletani, la cui fanciullezza
negata dalle misere condizioni di vita è descritta con intenso realismo
e al contempo trasfigurata in chiave mitica. L'intima identificazione
morale col mondo degli esclusi non comporta infatti un'adesione alle
cadenze espressive proprie della denuncia sociale, facendosi piuttosto
veicolo di sublimazione poetica e psicologica (si vedano Carminella,
1870: Roma, Galleria nazionale d'arte moderna; Il prevetariello,
1870: Napoli, Museo di Capodimonte; Il cantore, 1872: L'Aja,
Museo nazionale H.W. Mesdag; Saltimbanco, 1872: New York,
Metropolitan Museum of art; Bacco, 1874: Milano, Museo nazionale
della scienza e della tecnica). All'inizio dell'ottavo decennio, sulla
scia dei buoni successi all'istituto di belle arti - nel 1870 conseguì
il primo premio per la pittura; l'anno successivo, quello del disegno di
figura con Vestire gli ignudi (Napoli, Accademia di belle arti) -
e grazie all'interessamento di Antonio Lepre, medico e insegnante di
anatomia nel medesimo istituto, il Mancini ottenne alcuni locali nell'ex
convento della chiesa di S. Andrea delle Monache che utilizzò come
studio insieme con Gemito, lo scultore Michele La Spina di Acireale e il
pittore Vincenzo Volpe.
Vi realizzò, nel 1871, la Figura con fiori in testa che, esposta
alla Promotrice di Napoli, lo fece conoscere al musicista belga Albert
Cahen, il quale ne richiese una replica. Fratello minore di Édouard,
influente finanziere stabilito a Roma, Albert Cahen si convertì ben
presto per il Mancini in un vero e proprio patrono; è questo il primo di
quei numerosi legami mecenatizi che avrebbero costituito una costante
dell'intero percorso professionale dell'artista, caratterizzando il suo
rapporto con la committenza - sempre condizionato da una dipendenza
materiale ormai inconsueta per i tempi - in chiave fortemente
antimoderna (Rosazza). Tramite Cahen il Mancini entrò in contatto con
personaggi della società colta cosmopolita (fra gli altri lo scrittore
Paul Bourget e la famiglia Curtis) che molto apprezzarono e sostennero
la sua produzione. Fallito il tentativo di avvicinare il Mancini al
mercante tedesco G. Reitlinger, sostenitore di altri pittori
meridionali, Cahen fornì al Mancini contatti col mercato artistico
internazionale, che gli permisero di inviare quadri ad Alphonse Portier
che riuscì a garantirgli la vendita di alcune opere. Sempre tramite
Cahen, il Mancini trovò accesso ai Salon parigini, dove inviò nel 1872
Dernier sommeil e Enfant allant à l'école e nel 1873
Orfanella (Amsterdam, Museo nazionale), già rifiutato, per le sue
grandi dimensioni, da Giuseppe Verdi che lo aveva visto a Napoli
(Santoro, p. 257). Risale al 1873 il primo importante viaggio di studio:
nel maggio visitò Venezia, dove raggiunse Cahen, e successivamente
Milano, alla cui Esposizione nazionale di belle arti espose due opere di
piccolo formato scartate in prima istanza dalla commissione, ma poi
reinserite in mostra in posti d'onore dall'ordinatore Eleuterio
Pagliano.
Nell'estate del 1874, con Gemito, Michetti e Eduardo Dalbono, il Mancini
frequentò assiduamente la villa Arata di Portici, dove a partire dal
luglio risiedette con la famiglia di Mariano Fortuny, nei mesi a
immediato ridosso della morte improvvisa del Fortuny, avvenuta a Roma il
14 novembre di quell'anno. L'incontro, fondamentale - come per gli altri
artisti napoletani - in ragione delle straordinarie suggestioni
pittoriche ed estetiche innescate dalla frequentazione del maestro
spagnolo, rappresentò per il Mancini la possibilità di venire finalmente
conosciuto da Adolphe Goupil, il celebre mercante francese sostenitore
dei più vivaci talenti pittorici e decorativi del momento. L'opera
Jeune garçon tenant une pièce de monnaie del 1873-74 (Naples, FL,
collezione Gilgore: A chisel and a brush, p. 70 n. 18), dono del
Mancini a Fortuny, fece infatti parte della celebre vendita all'asta
della collezione dell'artista spagnolo, avvenuta a Parigi nel 1875
proprio a cura di Goupil. A seguito di questa occasione di forte
visibilità, il Mancini fu sollecitato a recarsi a Parigi, dove si
trattenne da maggio a settembre (1875) e dove ebbe modo di conoscere e
frequentare non solo gli artisti italiani attivi nella capitale
francese, come G. De Nittis e Giovanni Boldini, ma anche Ernest
Meissonier e Jean-Léon Gérôme. Dal mercante parigino il Mancini ottenne
un contratto che gli avrebbe consentito di non risiedere a Parigi, ma di
inviare opere da Napoli; benché nel catalogo del Salon del 1876, dove fu
esposto Le petit écolier (Parigi, Musée d'Orsay), risulti
residente presso Goupil, il Mancini in quell'anno si trovava infatti di
nuovo a Napoli.
Un tentativo non riuscito di aprirsi un mercato a Roma (dove soggiornò
brevemente presso il Circolo degli artisti) e, soprattutto, lo scarso
successo all'Esposizione nazionale napoletana del 1877 (dove espose
Ama il prossimo tuo come te stesso e I figli di un operaio)
lo indussero tuttavia a tentare una nuova esperienza in Francia, e nel
marzo 1877 era di nuovo a Parigi, con Gemito. Secondo quanto riportato
da Cecchi (pp. 85 s.) il Mancini portò con sé in Francia il più
significativo fra i dipinti dedicati alla raffigurazione degli scugnizzi
napoletani, il Saltimbanco (Filadelfia, Museum of art, lascito
Jordan) in costume con piuma di pavone, eseguito a Napoli "all'ombra di
candela diretta da Gemito" e capolavoro di straordinaria sintesi poetica
dell'artista. Giunto a Parigi danneggiato, il dipinto fu ritoccato dallo
stesso Mancini (1878) che allo scopo fece appositamente venire da Napoli
Luigi Gianchetti, detto Luigiello, giovane scugnizzo convertitosi nel
suo modello preferito. Il saltimbanco, acquistato in prima
istanza da Cahen, fu poi esposto alla sezione italiana dell'Esposizione
universale del 1878 e ivi acquistato dal comitato dell'Esposizione
(Antonio Mancini, p. 101 n. 13). Data a questi anni il patto economico
che il Mancini strinse a Parigi con Gemito, una sorta di accordo
protezionistico che avrebbe dovuto impedire a entrambi di vendere
proprie opere senza il consenso l'uno dell'altro in merito al prezzo di
vendita. Tale patto, svantaggioso per entrambi, generò una serie di
aspri contrasti sfociati, nel 1878, nella dolorosa rottura dell'amicizia
con lo scultore. I dissapori con Gemito, del resto, furono prodromo di
un generale guastarsi dell'esperienza parigina, funestata da debiti,
malattie nonché dal faticoso inserimento negli impegnativi ambienti
della mondanità locale.
Con l'amarezza di un personale fallimento il Mancini tornò dunque a
Napoli nel marzo del 1878. Il già precario equilibrio psichico fu nei
mesi successivi definitivamente turbato e, pur seguitando a dipingere (La
corallaia; Casa di pegni; Si vende), il Mancini andò soggetto a
ripetute crisi nervose. Affidato alle cure del professor Giuseppe
Buonomo nel 1881 fu internato nel manicomio provinciale di Napoli.
Neppure nei mesi trascorsi in manicomio, dall'ottobre 1881 al febbraio
1882, il Mancini cessò di dipingere; appartengono a questo momento il
Ritratto del dottor Buonomo, il Ritratto del dottor Cera,
diversi ritratti di addetti del manicomio, nonché numerosissimi
autoritratti - genere in cui non stancò mai di cimentarsi - nei quali il
Mancini si scrutava con acutezza in una sorta di spietata autobiografia
dei suoi stati psichici (Antonio Mancini, pp. 104 s. n. 19, 116 s. nn.
41 s.). Testimonianza del suo stato di turbamento è, inoltre, una
straripante grafomania che si manifestò in lettere interminabili e
sconnesse inviate ad amici e conoscenti (parzialmente consultabili solo
in Santoro). Dimesso dagli istituti di cura e aiutato finanziariamente
dal barone Carlo Chiarandà, il Mancini decise di lasciare Napoli per
Roma, città dove si trasferì definitivamente nel 1883, sostenuto anche
da un piccolo sussidio mensile offerto dall'istituto di belle arti per
interessamento di Palizzi e Morelli. Risale al 1883 anche l'inizio del
sodalizio col marchese Giorgio Capranica del Grillo, figlio di Giuliano
e dell'attrice Adelaide Ristori (nel 1889 ne eseguì il ritratto oggi
alla National Gallery di Londra), esponente di punta dell'ambiente
culturale romano, il quale ne divenne mecenate e tutore. Di poco
successivo fu l'incontro con Daniel Sargent Curtis, ricco mecenate
americano, stabilitosi a Venezia in palazzo Barbaro, e con il figlio
pittore, Ralph Wormsley Curtis, cugino di John Singer Sargent; con le
opere inviate per la loro residenza veneziana, il Mancini si inserì nel
giro dei collezionisti stranieri residenti in Italia, importante filone
di committenza lungo tutto l'arco della sua vita.
Seguì l'incontro con lo scultore Thomas Waldo Story, figlio del più noto
William Wetmore Story, americano, stabilitosi definitivamente a Roma già
dal 1851, il quale gli offrì l'opportunità di lavorare nel suo studio
sito nel palazzo di famiglia in via San Martino della Battaglia. Rimase
invece sempre una relazione a distanza quella col pittore di marine,
banchiere e mecenate olandese Hendrik Willem Mesdag il quale dal 1885
iniziò a collezionare opere del Mancini, oggi in gran parte raccolte nel
museo omonimo a L'Aia (come Il ragazzo nudo del 1885: Pennock e
Italie 1880-1910). Nel 1887, presente a Venezia per l'Esposizione
nazionale, il Mancini frequentò il salotto di palazzo Barbaro, dove i
Curtis intrattenevano un cenacolo culturale. Tornato a Roma, sperimentò
in via sempre più consapevole il sistema della cosiddetta doppia
graticola, consistente in una coppia di telai quadrettati a spago, posti
davanti al modello e davanti alla tela per garantire l'esattezza
dell'impianto prospettico. Lasciato visibile al di sotto della materia
pittorica, esso dava luogo al ben noto effetto di quadrettato tipico
della sua pittura fra la fine degli anni Ottanta e Novanta: effetto
dapprima apprezzato ma via via guardato con sospetto dalla critica che
avrebbe finito con lo stigmatizzarne un ricorso eccessivo. Per quanto
l'intensità delle sue ricerche tecnico-pittoriche avesse dato nuovo
slancio alla sua produzione, il Mancini continuò a rimanere in una
posizione emarginata nell'ambiente artistico romano, da lui stesso in
più occasioni deprecato in quanto corrotto e volgare; mantenne la
propria vita entro le coordinate di un'esistenza precaria e sregolata e
fu costretto più volte a chiedere aiuto ai suoi amici altolocati per
ottenere qualche incarico. Nonostante tali condizioni, il padre Paolo,
rimasto vedovo, dal 1890 si trasferì a Roma presso il Mancini,
diventando uno dei suoi più abituali modelli.
Nel 1894 ottenne dall'economista Maffeo Pantaleoni la commissione del
ritratto della madre (Ritratto della signora Pantaleoni, 1894:
Roma, Galleria nazionale d'arte moderna), successivamente presentato e
premiato all'Esposizione universale di Parigi del 1900; mentre nel 1895
riuscì ad ampliare la cerchia dei suoi committenti incontrando Isabella
Stewart Gardner, presente a Roma in primavera col marito, la quale - già
in possesso del Ciociaretto portastendardo precedentemente
appartenuto ai Curtis - gli commissionò il ritratto del marito, da
eseguirsi a Venezia, dove la famiglia sarebbe stata ospite in palazzo
Barbaro. Il Mancini li raggiunse in effetti nel maggio, in tempo per
visitare la prima Biennale internazionale d'arte (dove espose Ragazzo
romano e Ofelia), rassegna cui avrebbe partecipato con
regolarità fino al 1914. L'incontro con Edoardo Almagià, avvenuto nel
1898, generò nuove significative commissioni non solo da parte di questo
(Ritratto della famiglia Almagià, 1903), ma anche da parte di
importanti famiglie a lui imparentate o legate, come gli Ambron, i
Bondi, i Volterra, i Sonnino. Nel 1901, sull'onda del grande successo
ottenuto a Parigi con il Ritratto della signora Pantaleoni,
Claude Pensonby, amico dei Curtis e di Sargent, invitò il Mancini a
recarsi a Londra, dove l'artista giunse nel mese di giugno dello stesso
anno e dove sarebbe ritornato nel 1907. Giunto a Londra, nel 1901 il
Mancini eseguì il Ritratto di Claude Pensonby e il Ritratto di
Haroldino Pensonby. E incontrò Mary Hunter, sorella della
compositrice Ethel Smith e buona amica di Sargent, la quale raffinata
protagonista degli ambienti culturali europei, si convertì in attenta
protettrice del Mancini. Datano all'autunno del 1901 il suo ritratto,
quello del marito Charles e quello della figlia Sylvia, tutti dipinti
nella dimora di famiglia a Selaby, nel Darlington. A Londra, il Mancini
frequentò anche il salotto artistico-letterario della famiglia
Caccamisi; lì ebbe occasione di incontrare Jacques-Émile Blanche,
Auguste Rodin, John Lavery nonché John S. Sargent, la contiguità col
quale è dimostrata anche dal ritratto del Mancini eseguito dall'artista
statunitense nel 1902 (Roma, Galleria nazionale d'arte moderna).
Deludente, nonostante i buoni contatti, fu l'approdo del Mancini alla
attesa mostra annuale della Royal Academy, dove fu accettato soltanto
uno (il Ritratto di Mary Hunter) dei quattro dipinti presentati;
deluso anche per il mancato appoggio di Sargent, il Mancini tornò in
Italia, sostando a Ghiffa, sul lago Maggiore, in vista del ritratto da
realizzare ai coniugi Torelli, agiati collezionisti di arte
contemporanea e particolarmente di opere della scapigliatura lombarda.
Cominciarono ad arrivare, nel frattempo, segnali di un successo
internazionale e, dopo la mostra monografica organizzata nel 1897 da
Mesdag presso l'Associazione Pulchri Studio dell'Aia (ripetuta nel
1902), la presentazione di diciassette sue opere alla mostra di
Dordrecht nel 1899, il successo ottenuto a Monaco col Ritratto
presentato all'Esposizione internazionale, il Mancini partecipò nel 1904
anche all'Esposizione internazionale di Düsseldorf con Ragazzo con
conchiglie (Naples, FL, collezione Gilgore) e I regali del nonno;
mentre il Ritratto di Giorgio Capranica del Grillo e il
Ritratto della signora Pantaleoni verranno premiati rispettivamente
all'Esposizione universale di Saint Louis (1904) e a quella
internazionale di Monaco di Baviera (1905). A Roma, frattanto, il
Mancini entrò in contatto con nuovi committenti come Hugh Lane,
direttore della Municipal Gallery di Dublino, amico degli Hunter, di
passaggio nel 1905 in città, visitò lo studio dell'artista avviando
trattative per l'acquisto di sue opere (Ritratto di Giorgio Capranica
del Grillo), nonché per la commissione del proprio ritratto,
eseguito nel 1906, che valse al Mancini un nuovo invito a raggiungere
l'Inghilterra.
Nuovamente a Londra nel settembre 1907, ancora in stretto contatto con
la famiglia Hunter (Ritratto di Phyllis Williamson, figlia di
Mary Hunter; Ritratto di Elizabeth e Charles Williamson; Ritratto di
Elizabeth Williamson), il Mancini fu poi a York, ospite della
famiglia Lawson (Ritratto dell'ambasciatore Thomas Lawson, marito
di Sylvia Hunter), e, infine, a Dublino, ospite di Hugh Lane, attraverso
il quale entrò in contatto con la società letteraria e artistica locale.
Tornato a Londra, realizzò una serie di ritratti per la famiglia
aristocratica Dixwell Oxenden (Ritratto di sir Basil Heneage Dixwell
Oxenden, 1908: Roma, collezione privata) e i tre dipinti componenti
la serie "Al mio signore". Tornato a Roma nell'estate del 1908, il
Mancini si legò con contratto al mercante tedesco Otto Messinger (Ritratto
di Otto Messinger, 1909: Roma, Galleria nazionale d'arte moderna)
già collezionista di pittori meridionali, il quale dapprima lo ospitò in
palazzo Massimo alle Colonne per poi allestirgli uno studio personale
nelle case Corrodi di via Maria Adelaide, nei pressi di piazza del
Popolo. Qui, adattandosi alle richieste del committente, dipinse quasi
esclusivamente figure in costumi settecenteschi, o comunque esotici,
cavalieri, alabardieri, suonatori, sempre contando sulle sostanze di
Messinger per la fornitura dei sontuosi costumi, degli arredi, dei
modelli. Ancora al seguito del suo ricco committente, intraprese nel
corso del 1910 un importante viaggio in Germania, soggiornando a Monaco
di Baviera, dove incontrò Franz von Stuck, e visitando Norimberga,
Colonia, Berlino. All'inizio del 1911, dopo l'esposizione della
collezione di Messinger a Monaco, il Mancini, passando dai Paesi Bassi
pur senza incontrare Mesdag, tornò a Roma.
Nel 1911 partecipò all'Esposizione internazionale, con otto delle opere
dipinte per Messinger che gli valsero uno dei cinque premi ex aequo per
il miglior artista. La critica dedicò particolare attenzione alla
tecnica del Mancini, di sempre maggiore audacia cromatica e materica.
Fra i primi a congratularsi del successo ottenuto alla mostra di Roma fu
Fernand du Chêne de Vère, ricco industriale francese trapiantato a
Milano, che sostituì Messinger, con cui il rapporto si era interrotto,
proponendo al Mancini un contratto in esclusiva rinnovato annualmente
dal 1912, subito dopo la morte del padre Paolo, fino al 1918. Durante
questo periodo il Mancini visse nella dimora approntatagli dal suo
mecenate a villa Jacobini a Frascati, dove ebbe a disposizione ampi
locali e un ricchissimo armamentario di tele, colori, stoffe, costumi
originali, arredi d'ogni tipo per le sue ambientazioni eccentriche ed
esotiche. Solo al termine del conflitto mondiale, appreso che il
fratello Giovanni e il nipote Alfredo, reduci dal fronte, si trovavano a
Roma, decise di lasciare la villa per trasferirsi presso il fratello
Giovanni e la sua famiglia, dapprima in un appartamento di viale Liegi e
poi, dal 1926, nel villino in via delle Terme Deciane, ultima sua
residenza.
Nel 1920 la XXII Biennale di Venezia consacrò definitivamente il suo
trionfo, dedicandogli una mostra personale, tutta composta di opere
recenti (Testa di donna in azzurro, Autoritratto, Enrica, Ciociara,
Riflessi, Satanico, Profilo, Bambina, Testa di donna, Ritratto del
tenente Bonanni, Paggio, In giardino, Mia nipote, Il ricamo, Bandiera,
Ritratto, Sorriso, Gentiluomo del XVII secolo, Primavera, Inverno,
Conchiglie), acquistate in blocco e ad alto prezzo da una cordata di
mercanti d'arte. La riguadagnata sicurezza economica gli permise di
riacquistare il dipinto giovanile Lo scugnizzo (Terzo
comandamento), rientrato dalla Francia dove aveva fatto parte della
collezione parigina di Michele Manzi e riproposto all'asta organizzata
da Augusto Jandolo nel febbraio del 1921. Gli ultimi anni della vita del
Mancini furono costellati di importanti tributi nelle principali
rassegne italiane. Nel 1927 i suoi settantacinque anni furono celebrati
ufficialmente con una mostra retrospettiva all'Augusteo di Roma promossa
dalla rivista La Fiamma; a Milano, nello stesso anno, ebbe luogo presso
la galleria Pesaro la vendita di oltre quaranta opere, presentate in
catalogo da Vittorio Pica, appartenenti alla collezione Chêne de Vère. A
questa seguì la mostra organizzata nel 1923 al Castello Sforzesco,
dedicata al periodo di Frascati. A Londra, la galleria Knoedler in Bond
street organizzò alla fine del 1928 una esposizione di ventisette
dipinti e tredici pastelli del periodo inglese, nel cui catalogo era
premessa la frase di Sargent: "I have met in Italy the greatest living
painter".
Nominato accademico di merito di S. Luca nel 1913, cittadino onorario di
Napoli nel 1923 con solenne cerimonia a palazzo S. Giacomo (in
quell'occasione incontrò di nuovo e per l'ultima volta Gemito, il 29
ottobre 1929 fu fra i primi a essere accolto nella neo istituita Reale
Accademia d'Italia. Eseguì nello stesso anno l'Autoritratto
(collezione privata) sul quale annotò, in una sorta di sconnesso
palinsesto biografico, le principali scansioni del suo percorso
professionale ed esistenziale (Antonio Mancini, p. 128). Fra le ultime
opere dipinte prima di morire, l'Autoritratto con turbante rosso
(collezione privata). Il Mancini morì a Roma il 28 dicembre 1930. Una
personale di tre sale organizzata da Cipriano Efisio Oppo (circa
cinquanta opere) lo omaggiò solennemente alla I Quadrienale romana nel
1931. Nel 1935 la salma del Mancini fu traslata dal Verano alla chiesa
di S. Alessio all'Aventino.
(Matteo Lafranconi - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 68
(2007) -
www.treccani.it)
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