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(Fonte : Opere di scultura e di plastica di Antonio Canova - 1821)
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VENERE
Statua in marmo
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Quello stesso Scultore, alla cui modestia quasi
raccapriccio destarono un tempo le reiterate, ma sempre
inutili preghiere della Toscana tutta, perché ridonar si
compiacesse alla Venere Medicea le perdute sue braccia, chi
crederebbe, che cedendo ora a voti maggiori, ma perciò solo
cedendovi, che rinchiudere non sembravano apparenza alcuna
di gara, d'una Venere nuova avesse fatto dono all'Italia, e
raddolcita avesse per questo mezzo quella ferita, che aperto
aveale nel cuore la partenza d'un'ospite tanto amata ? Ma
siccome nulla v'è appunto di più schivo e difficile della
vera e sentita modestia; così fu forza patteggiare con
quella di Canova, il quale non acconsentì, che nella così
detta Tribuna di Firenze fosse collocata la sua Venere, se
non a condizione, che collocata non fosse nel punto medesimo
dalla Greca occupato, ma quasi ancella di lei se ne stesse
da un canto. E neppure imitar ne volle l'atteggiamento,
spinto, cred'io, da quel naturale ribrezzo, che prova sempre
nel seguire altrui chiunque, di forti e robuste penne
sentendosi armato, può da sé solo slanciarsi alle sublimi
regioni del Bello; ribrezzo, che l'impareggiabile Artista
assecondò volrntieri, perciò appunto che prendea questa
Volta í sembianti della sua prediletta virtù.
Bello si è quindi il vedere, com'egli guidato da quel
senso squisito di perfezione, che gli è naturale,
cominciasse, formandola, dal soddisfare al desiderio comune,
secondo il quale un poco più grandicella avrebbe dovuto
rappresentarsi quell'antica meraviglia. Seguendo addunque
una più favorevole natura, ne aggrandì un poco le
dimensioni, e mossela nella vezzosa e seducente attitudine
di chi se n'esce allora allora del bagno; quando le
freschissime membra acqua stillanti offrono agli occhi
quella vaghezza, e destano quella inesprimibile voluttà che
propria è appunto di quell'istante, in cui le acque
scorrendo giù lasciano rammorbidita, molle, e direi quasi
trasparente la pelle.
Tu credi che Venere venga fuori una seconda volta dalla candida spuma
dell'onde: e la fragranza credi ancor di sentire, che fuor si spande da quell'urnetta
di preziosi balsami, che le sta presso. La Venere del Greco scarpello, comechè
rappresentata essa pure nell'uscire del bagno, perdette certamente, se l'ebbe
mai, quest'incanto meraviglioso, forse per ragione dell'aria mordente, che, ove
non guasti del tutto, altera almeno sensibilmente col perpetuo attrito le ultime
finitezze, e, dirò così, gli ultimi sforzi dell'Arte, o per cagion della terra,
se il simulacro giacque sepolto, o forse per ambedue queste cause; quindi
quell'inamabile lustro nelle pur mirabili membra di quella, che tanto incresce,
allorchè specialmente lo si paragona con la pelle porosetta, e quasi ruvida
all'occhio, della Canoviana. Ma il confrontare fra loro queste due opere
stupende
E' d'altr'omeri soma che de' miei.
Mi tratterrò solamente a notare taluno di quei pregi infiniti, che adornano
quella del nostro Canova. Stassi ella con elegante proprietà di mossa alquanto
curvetta, con le ginocchia un cotal poco piegate, e preme con ambo le mani
voluttuosamente strette in mezzo al petto un pannolino ad asciugarla destinato;
il quale a larghe ripieghe cadendo, le cuopre la parte davanti della persona,
eccettuata tutta la destra gamba, e la sinistra dal ginocchio in giù. Questo
lino è sculto con sì felice accorgimento, che lascia vedere, quasi fuor da un
velo, la mano, e parte del braccio destro, che vi stan sotto; poscia con un
meraviglioso girar di pieghe s'aggruppa, ove il pudore richiedelo, indi sottile
si stende, e s'attacca sopra le ginocchia umidette, e ripiegandosi finalmente
dal destro lato, e scendendo a terra viene a reggere da se solo l'intero
simulacro.
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Partito felice! che il necessario appoggio concedendo
alla statua, lo dissimula agli occhi, a cui ogni sostegno in
tale situazione sarebbe comparso inopportuno. Ma nulla può
vedersi di più aggraziato, di più animato, e amoroso della
testa vezzosa, che si rivolge prestamente verso l'omero
sinistro. Quest'atto, questa vivezza di mossa, che non la
farebbe meglio Natura, questa esultazione, che tutta la
persona le invade, vorrebbe forse significare, che lo
strepito, che l'ha tanto commossa, quello si fu del noto, ed
aspettato cocchio di Marte ?.... Or d'onde mai venne, che i
Greci nei loro simulacri di Venere un volto ci tramandarono
perfettamente tranquillo, sopra cui passione, o desiderio
alcuno non ispunta? Eglino, che sì facilmente
s'appassionavano, come mai poterono amare, e presciegliere
nell'aspetto delle lor Veneri una tranquillità, ed una calma
contagiosa, che nell'animo altrui trasfondendosi
ammorzerebbe ogni entusiasmo se poi l'armonica avvenenza
delle membra possentemente nol ridestasse? Egli è vero che
le grandi passioni alterano, e, quasi dissi, sfigurano i
delicati e difficili lineamenti della bellezza; quindi
giusto è che la rappresentazione loro sia vietata nell'Arte;
ma un mansueto desiderio di piacere, di gioire, d'amare,
d'essere amata, forsechè per lo contrario non la rende
maggiore, e più cara? E non è forse un tal sentimento, che
c'invita a preferire un volto meno avvenente, ma più
animato, ad un altro, che nulla al nostro spirito, al nostro
cuore, alla nostra immaginazione dica, o richieda ? E d'onde
tanta contraddizione fra i Poeti, e gli Artisti di quella
stessa Nazione; avuto anche riguardo a que' dilicati
confini, che con tanto maestra e sicura mano fra le due Arti
sorelle pose il celebre Lessing? Dipinsero i Poeti le loro
Divinità agitate dalle umane passioni; perchè dunque gli
Scultori eccedettero eglino nel rappresentare le loro Veneri
anche que' gradi di tranquillità, che pur si richiedono,
onde non turbar le sottili, e quasi sfumate linee della
bellezza, unico scopo delle belle Arti?
Sembra che Canova, dando peso egli stesso a questa obbiezione, abbia voluto
riscaldare col fuoco divino, che per le vene le scorre, il volto della
bellissima sua Venere. Acconciolle i capelli con sommo studio, ed eleganza,
volendo per avventura indicarci che la Madre stessa d'Amore nulla dee
dimenticare dell'arte, che tanto ogni dono della natura, e persino la Bellezza
medesima rabbellisce. Questi capelli fini e foltissimi sono contenuti da una
lunga benda, che ravvolgendosi con replicati giri vien poi condotta, quasi per
man delle Grazie, a sospenderne con vago nodo dietro la testa varie ciocche
d'inanellati, lievi lievi così, come Zeffiro vi soffiasse per entro. Gli occhi,
che nella statua non esistendo realmente, io chiamerei pel mirabile effetto, che
pur producono, una ispirazione dell'Artista, anzi che un lavoro della sua mano,
uno sforzo mirabile della sua fervida immaginazione, che quella d'altrui agita,
riscalda, e fa sì, che ognuno vegga ed ammiri ciò, che nel fatto non vede, gli
occhi hanno in questa Venere una dolcezza soavissima, ed una divina eloquenza.
Sembra, che in questa parte del volto con maggiore
compiacenza s'arresti sempre la mente, e la mano
dell'Artista sublime, per ottenere ciò ch'altri, vaglia il
vero, mai a grado tal non ottenne, quell'anima delle Arti
del disegno, la divina espressione. Che dirò poi del dolce
riso, che sulle labbra le spunta; del collo, del petto, che
bellissimo sorge con castigata piecioletta mole; del dorso,
che con dolcissima curva verso gli omeri s'innalza, e
dolcissimamente discende sino al cader delle reni? L'occhio
avido di celeste piacere si pasce di tante bellezze senza
saziarsi, intantochè non più freddo, nè inanimato gli
comparisce il marmo rammorbidito.
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