Pillole d'Arte

    
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(Fonte : Dedalo - Rassegna d'arte diretta da Ugo Ojetti, Milano-Roma, 1924-25)

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L'ARTE DI VINCENZO GEMITO E SETTE RITRATTI INEDITI

 
Si aggiunga che un altro pericolo gli sovrastava. Era anche questo comune ai più degli scultori tra il 1870 e il 1890; ma per lui abilissimo e dedito al continuo disegnare, era anche più minaccioso. Intendo il pericolo della pittura fattasi allora maestra della scultura. I disegni, gli acquerelli, i pastelli di Vincenzo Gemito sembrano, i più, opera d'un pittore non d'uno scultore: specie, i disegni a penna, stupendi ma rapidi, rotti, vibranti di luce, con un chiaroscuro magistrale cui súbito l'artista apponeva, senza pentimenti, qua il massimo d'ombra, là il massimo di luce. La maniera di questi disegni deriva dall'esempio di Mariano Fortuny che nell'estate del 1874 dimorò a Portici nella villa Arata e, ospitale e liberale, teneva giorno e notte la casa aperta ai giovani colleghi di laggiù: Gemito, Mancini, Dal bono, in prima fila. Non è in queste carte la sobrietà e fermezza dei profili, il netto rilievo dei pochi piani essenziali, il germe insomma della statua che fanno al primo sguardo riconoscere il disegno d'uno scultore, da Michelangelo a Canova.

Gemito non pensa che ai giochi della luce sulle vesti, sui capelli, sulle carni, sull'aria attorno, così che i contorni si disfanno e svaporano delicatamente nello sfondo. Anche Domenico Morelli allora disegnò così: ma era un pittore. Cogli anni i disegni di Gemito sono divenuti più semplici e incisi; ma qui io parlo degli anni della sua creazione più vivace, tra i venti e i quaranta. E quando da Napoli nel 1877 pieno di speranza e di stupore egli andò a Parigi la prima volta, a raggiungere il suo amico Mancini e ad esporre il suo Pescatore nel Salon "che è più grande (scriveva) del Palazzo Reale di Caserta", dall'affettuosa protezione del Fortuny passò alla paterna amicizia del Meissonier. Era la pittura di costui più ferma e ragionata, senza i brividi e lo sfavillio di quella fortuniana, ma altrettanto minuta e spezzata.

Risale a quelli anni, tanto la novità di questa confusione sembrava seducente, la scultura milanese detta impressionista, la scultura cioè di Giuseppe Grandi e poi di Ernesto Bazzaro, di Medardo Rosso, di Paolo Trubetzkoi, scultura di pittori anche quella, opposta alla scultura, per non dire d'altri, del Vela. Parlo, s'intende, del Vela quando è profondo e ben piantato nel suo sodo verismo, del Vela che ha scolpito il Cavour di Genova o il Napoleone morente di Versailles. Eppure anch'egli nel 1882, più che sessantenne, quando modellò il gran rilievo delle "Vittime del lavoro nel traforo del Gottardo", si piegò alla maniera dei giovani milanesi, quasi ad affermare, lui ultimo rampollo dei robusti e quadrati comacini: ? Sono pittore anche io. ? Ma la scultura pittoresca dei lombardi, provandosi a rendere con colpi di spatola e di pollice sulla creta, con scheggiature a conchiglia e tremule marezzature sul marmo, l'indefinita e superficiale carezza della luce, ebbe anche un merito: quello d'abolire il fastidio dei particolari minuti, del tritume realistico caro agli altri scultori, e sopra tutto ai meridionali. Fu allora che gli scultori cominciarono ad avere paura del marMo severo e dell'inesorabile scalpello, e a non modellare più che in creta e in cera pel fluido bronzo. Ne da questa paura molti sono ancóra guariti, anche perchè, dopo tanto abbandono, la pratica del marmo si può dire, negli artisti, perduta, e i più "monumentali" si devono affidare agli artigiani di Carrara e di Pietrasanta perché traducano essi nel marmo i loro gran gessi.
Così fu di Gemito, rimasto anch'egli più affezionato alla stecca che al mazzuolo e allo scalpello. Anch'egli si divertì spesso a strappare pittorescamente spalle e petti e colli tanto da evitare il classico taglio regolare e simmetrico dei ritratti antichi a busto e ad erma. Anch'egli, nel trattare vesti, camice, cravatte, capelli, baffi, volle essere più pittore di tremulo chiaroscuro che scultore di masse e volumi. Ma, conosciuti i suoi limiti, concentrata la sua attenzione sui volti, eccolo tutto intento a rendere plasticamente l'espressione singolare, a ricercare sotto la pelle e la carne l'impalcatura dell'ossa, a definire giro giro i profili così da darti da ogni lato la sensazione del volume pieno e da farti sentire l'appoggio e la resistenza di quel che v'è dall'altra parte: a fare insomma opera di scultore. Alla moda cedette gli accessori, all'arte sua serbò il principale. E a tutti i modelli, perfino a questo giovane "Pescatore " (pag. 331), perfino alle belle popolane che ho ricordate più sopra, dette, pur nella varietà degli animi da raffìgurare, la dignità e gravità che rispondevano allo scontroso animo suo e al suo intimo tormento, e che ritroviamo in tutti i suoi autoritratti: dignità e gravità tanto lontana dalla spensieratezza degli artisti suoi contemporanei nell'era umbertina, quanto vicina, dal Preti al Toma, alla pensosa malinconia della più durevole e memorabile arte meridionale.

Il busto di Giuseppe Verdi, a capo basso, modellato pei buoni offici del Morelli quando il maestro andò a Napoli a porre in scena al San Carlo l'"Aida" e il "Don Carlos" (9), è del 1873; il busto di Domenico Morelli è dell'anno dopo. Sono tutti e due notissimi. Dello stesso anno 1871 è questa fiera testa di Francesco Paolo Michetti (tav. fuori testo e pag. 318). A cinquant'anni di distanza Michetti gli assomiglia ancóra, tanto bene negli zigomi distanti e prominenti, nel cavo tra essi e la bocca, nella fronte rotonda, nelle tempie larghe e piane, nell'arco fondo dell'orbite, lo scultore ha modellato questo cranio, ha ritrovato nell'ossa il piglio risoluto della testa sull'esile collo. E uno dei più vivi ritratti del nostro ottocento. Basta seguirne il profilo per sentire la fermezza della mano di chi l'ha modellato. Basta osservarne il chiaroscuro che dal cupo foro delle pupille si distribuisce sobriamente su tutto il chiaro volto giovanile, per immaginare che ritrattista sarebbe stato Vincenzo Gemito se intorno a lui non soltanto i pittori si fossero accorti della sua potenza. L'arte qui sta nascosta dietro l'opera: che è il proprio dei classici. Senza quei tocchi di pittoresca bravura nei capelli, a ritrovare questa terracotta nel fondo d'un museo la si direbbe antica.
Nella terracotta di Mariano Fortuny, anch'essa del 1874, quella bravura si sbizzarisce anche più (pagg. 320-321). Le masse pesanti dei capelli ricciuti, le pieghe di quel poco di giubba aperta sul collo pesante sono traforate, come nel busto di Domenico Morelli, da neri uguali e inconcludenti. Ma nel maschio volto, se lo volgi lentamente a considerarne tutti i profili, ritrovi la scelta e i riposi che fanno lo stile. Lo stesso si dica del ritratto Landolt (pag. 328), anch'esso, come quello del Fortuny, col capo un poco piegato in avanti così da soggiogarti con lo sguardo. Ma là v'è la mobilità d'un pittore; qui la composta calma d'uno scienziato. Anche nel ritratto Landolt ciò che prima colpisce, è nella fronte, nel naso, nella mascella, la nitidezza della costruzione ossea, così sicura che questo volto ti sembra che prima sia stato modellato scarnito e poi vi sieno state appiccate cartilagini, muscoli, pelle e pelo.

Dove ritroviamo tanta sagacia, prima nel vedere e poi nello sceverare i tratti d'un volto, tanta unità e solidità nel costruirlo? La ritroviamo nei busti romani del Museo nazionale di Napoli, dall'asciutta faccia detta di Celio Caldo al morbido volto detto di Bruto minore. L'arte di Vincenzo Gemito si formò purtroppo in tristi anni quando i giovani non si credevano destinati alla gloria se non maledivano i musei. Il vezzo è continuato fino a che i futuristi hanno codificato quindici o vent'anni fa i benefici e i comodi dell'ignoranza. Di questa stoltezza durata mezzo secolo si vedono ogni giorno i leggiadrissimi effetti. Ma tra il 1870 e il 1880 quel vezzo era ancóra recente, e la tradizione era ancóra tanto viva che, volenti o nolenti, gli artisti più capaci ne sentivano per fortuna i sicuri puntelli. Anche oggi vien fatto di ritrovare, percorrendo le pinacoteche di Toscana, nei fondi dei quadri della rinascenza, da quelli dell'Angelico a quelli di Fra Bartolomeo, paesaggi che sembrano veduti, sentiti, dipinti da Giovanni Fattori.

Certo un poco d'indulgenza è necessaria in confronti siffatti; nè è detto che spregio e ferocia giovino alla perspicacia d'un critico. Forse il confronto con l'antico sarà per molti più agevole considerando, ad esempio, la testa del "Filosofo" modellata da Gemito nel 1883, perchè lì anche l'acconciatura ci aiuta. Ma a noi la somiglianza sembra molto più evidente davanti a questa testa di "Pescatore" (pag. 331), e a questo ritratto di Francesco Paolo Michetti. Già l'intuì Gabriele d'Annunzio nelle armoniose pagine su Vincenzo Gemito preposte all'Ode per Giuseppe Verdi: "A Napoli fioriva un giovinetto meraviglioso che pareva nato veramente d'una di quelle antiche stirpi migranti dall'Ellade alle rive della Campania... 55 (10).

 Il giovane scultore, senza maestri a Napoli e senza compagni degni di lui, dibattendosi tra la povertà e la speranza, tra l'oscurità e l'ambizione, tra la tentazione, della maniera in voga e la nativa aspirazione del suo genio, condannato a vivere in tempi gretti e miopi quando la lode è più dolorosa dell'offesa, dovette anch'egli sentire la grandezza e la miseria del suo destino. Nell'aprile 1878 in una lettera alla povera donna che l'aveva raccolto e le aveva fatto da madre, scriveva, di questi busti, da Parigi così: "All'Esposizione Universale ho esposto il Morelli e il Verdi. Al Salon metterò il ritratto di Fortuny e quello di Faure. Forse vi salverò da tanti guai. Forse ritornerò grande". Nove anni dopo sprofondava nella follia. Ne è emerso, vecchio e stupefatto, da pochi anni. Oggi ne ha settantadue.



UGO OJETTI                   

 


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