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(Fonte : Dedalo - Rassegna d'arte diretta da Ugo Ojetti, 1925-26)
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GIUSEPPE VINER
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IL PITTORE GIUSEPPE VINER s'è ucciso il 5 d'ottobre nella
sua casa di Castelverde, sul monte sopra Pietrasanta. Era
nato il 18 d'ottobre 1875 a Seravezza. In gioventù aveva per
pochi anni lasciato la Versilia, ma presto ve l'aveva
ricondotto l'amore inestinguibile delle sue montagne e delle
cave rosse e bianche echeggianti di mine e di frane e di
gridi dove tutto il mondo viene a chiedere marmi per
fabbricarsi simulacri di gloria e di fede. Suo padre
commerciava in marmi e, quando l'aveva veduto darsi alla
pittura e partire, se n'era accorato e adirato come d'un
tradimento. Ma dalla nostalgia, pur con altri occhi e altra
anima. Giuseppe Viner fu ricondotto proprio là dove suo
padre aveva lavorato e penato. Quando fuggì da Seravezza,
venne, s'intende, a Firenze. La mattina studiava alla Scuola
d'arte industriale a Santa Croce; nel pomeriggio faceva per
vivere, il riquadratore e il decoratore. Chi, sui primi
saggi, l'incoraggiò a dipingere, furono Telemaco Signorini
che aveva studio in piazza Santa Croce di faccia a quella
scuola, e Giovanni Fattori, « il povero Fattori » come
allora lo chiamavano o per compassione della sua povertà o
per darsi il tono di proteggerlo almeno a parole.
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Tra il 1900 e il 1906 il Viner andò a vivere nella
campagna senese, presso Pienza e a Lucignano in Val d'Arbia.
Già pensava di non poter trovare in arte la sua via se non
era solo. Allora ebbe ragione. Questo trittico Terra
Madre che, mai noto fuori di Firenze e presto comprato
da stranieri più attenti di noi (l'Inverno è a
Budapest nella Galleria d'arte moderna), è certo la pittura
di paese più compiuta e singolare dipinta in Toscana in
questo principio di secolo.
Vi si ritrovano la notazione netta e quasi sillabata dei
valori cara al Fattori, la luminosa freschezza del
Signorini, il disegno sottile minuto e la pennellata lieve e
quasi invisibile del Borrani, e anche quel tanto d'idillico
che dal Cannicci al Gioli fu un altro carattere della
pittura toscana degli ultimi dell'ottocento e fece eco alla
così detta « poesia del focolare » diventata viva e durevole
in Giovanni Pascoli. Ma a scomporre cosi l'arte di Giuseppe
Viner si dimentica la sua volontà di costruire
armoniosamente, dagli studi sul vero, un paesaggio tanto da
rivelarne fuor dell'accidentale e dell'effimero il
carattere. Chi ha veduto questi tre paesi si domanda con
dolore perchè gli epigoni dei macchiaioli e degl'idillici di
Toscana, invece che procedere virilmente verso il quadro
compiuto sugl'insegnamenti dei vecchi, sieno rimasti anzi
abbiano retroceduto verso il bozzetto e lo schizzo o sieno
andati a naufragare sotto l'onde iridescenti
dell'impressionismo.
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Giuseppe
Viner con quel trittico, specie coi due quadri della
Semina e della Neve ch'egli con un poco di
letteratura chiamava della Fecondazione e della Gestazione,
aveva mostrato la via buona. Si confronti alla Semina il
quadro che nel 1922 comprammo di lui per la Galleria
fiorentina d'arte moderna e si vedrà il suo procedimento di
eliminazione e di composizione.
Non ebbe la forza di percorrere questa via fino in fondo.
Era, come oggi si dice, un sensitivo e un intellettuale.
Nell'ariosa e luminosa dimora su a Castelverde tra querce e
castagni. i libri erano in linea con le tavolette dipinte,
con le tele, coi vigorosi disegni a brace di cavatori e
minatori dei quali disegni alcuni sono per fortuna nel
Gabinetto dei disegni e stampe agli Uffizi e a Roma nella
Galleria Nazionale. Parlava dell'arte sua e altrui con
pacata finezza, e nella solitudine in cui si rinchiuse
appena tornato in Versilia, si torturò cercando i come e i
perché. Lo studio degli antichi monumenti della sua
incomparabile regione lo confortava nelle ore di
abbattimento. A percorrerla con lui se ne scopriva l'anima
fedele a se stessa nei secoli, ma sempre incerta tra la
manualità stupefacente di artefici nati e vissuti accanto al
marmo e nelle officine del marmo, e l'impeto di poesia che
l'alte vette e la vita rischiosa nelle cave e lo spettacolo
della marina a piè dei dirupi mettono in ogni cuore.
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Era un fotografo maestro, e quando t'alzava contro luce una
delle sue lastre perfette con la fotografia d'una scultura
romanica di Carrara o di Pietrasanta, nel suo volto emaciato
era qualcosa del sacerdote che alza al cielo la particola
consacrata. Sognava di dipingere anche delle sue montagne un
grande quadro che fosse il compendio di cento studi di forma
e di luce, il ritratto della loro bellezza. Ma nei due che
io conosco, l'Oro delle Apuane e lo Scoppio della
mina, diligenti, accesi e faticatissimi. ancora
l'imponente realtà era più forte dell'arte, il documento
vero più forte dell'emozione e dei sogni dell'artista. In
questo sforzo e in questa lotta con un tema forse più alto
di lui e della sua esperienza, ma non della sua
intelligenza, si logorò per anni, finché cedette e cadde.
Chiudeva così una lettera a un amico che l'anno scorso gli
chiedeva alcuni dati biografici:
« Se il pubblico volesse ancora curiosare nei fatti
miei, sappia che sono un solitario, di poche parole. di
pochissime amicizie, di gusti semplici, alieno dall'intrigo
e dalla piaggeria. Vivo con la famiglia in una casa che
sembra un convento fuori dalle strade piane, presso la
Ceragiola dantesca. Insomma, a definirmi con una frase, sono
un ingenuo che apprezza più la fatica che la ricompensa, più
l'ideale che il danaro, più la coscienza che il successo
».
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U. O.
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