Il concorso bandito nel 1909 dal Comune di Genova, d'accordo
con quello di Quarto al mare, che rivendicò allora il suo
diritto a chiamarsi Quarto dei Mille, per il monumento da
erigersi presso lo scoglio che è memorabile al cuore di ogni
italiano, ebbe un esito dei più lieti che le cronache dei
concorsi ricordino. La novità del tema era squisita e
seducente. I monumenti a Garibaldi sono ormai innumerevoli —
tra pochi degni e troppi sacrileghi - nelle piane d'Italia.
Ma commemorando il cinquantenario della grande Avventura, fu
compreso che si doveva finalmente onorarne insieme il duce e
i gregarii, la mente audace e le braccia gagliarde; dando ad
ognuno, con quell'immediata evidenza che è consentita
all'arte più che alla storia, il posto proprio. Non più
Garibaldi solo, invitto arcangelo, nume indigete,
sull'altare; ma insieme con lui tutta la forza del popolo —
non più l'eroe solitario, dalla potenza personale quasi
inesplicabile; ma anche le sue propaggini e diremmo le sue
radici nella materia greggia da cui egli è nato, e che è
stata poi da lui nuovamente animata come dal soffio d'Iddio.
Apoteosi complessa, dunque, e vasta e dinamica, e non ancora
tentata dall'arte.
Levata in alto dall'insigne nobiltà dell'assunto, l'arte
italiana si cimentò alla prova con forze insolitamente
temprate. Come che la visione si potesse contemplare da
punti di vista assai diversi e lontani fra loro, le
interpretazioni originali delle gesta, nel suo valore
storico e simbolico, furono tante, da rappresentare certo
una buona parte dei suoi possibili aspetti plastici. Così,
Guido Bianconi, invece che l'ardimentoso guerriero aveva
evocato in forme femminili la poesia più patetica che in
mezzo alla guerra non cessa di palpitare; e presso alla
fatale prora aveva adunati i fantasmi della gloria
dell'attesa e dell'addio. Gigi Orengo aveva forse raggiunta
la sua cima, aveva composta la sua più bella imagine, in una
nave latina, dallo sperone prominente, carica d'armi e
d'armati; ove il duce, al timone, era bene al suo posto di
nocchiuto. Angiolo Del Santo aveva impressa di grande purità
una vittoria, sopra uno sfondo di parete appena intagliata
da un fregio. Annibale Rigotti proponeva una colonna
trionfale all'uso romano: in luogo del bassorilievo a
spirale, i nomi dei Mille, incisi in oro sul fusto candido,
sarebbero stati un'illustrazione sfolgorante. E molte altre
idee vi erano, degne di ricordo.
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Con reverenza commossa si vedeva il bozzetto di Battista
Tassara, che fu egli stesso dei Mille, e giunse con la sua
lena sempre verde a partecipare alla cinquantenaria onoranza
dei suoi giorni più fausti e dei suoi intatti entusiasmi.
Egli ha preso parte al concorso, ed ora lo abbiamo veduto,
coi suoi riccioli bianchi, all'inaugurazione del monumento:
sempre il più baldo fra tutti i suoi compagni d'arme. Ad
multos annos, amico!... Il Comune di Genova, con atto
meritevole di plauso e di seguito, ha voluto conservare e
far conoscere, di tutti i bozzetti, almeno una pallida
imagine, in un completo catalogo che è come una ghirlanda
cui abbia dato fiori tutto il giardino della patria. Non ne
mancano, com'è naturale, di spinosi e male olenti: ma questi
non sono tanti da far disperare della nostra flora.
Ma pure, anche in mezzo a proposte così numerose - i
bozzetti presentati a tempo furono sessantatre - la scelta,
per quanto laboriosa, non poteva essere dubbia. Vagabondavo
nelle sale dove i bozzetti si ordinavano per la pubblica
esposizione, mentre essi giungevano. E' triste, sempre, ad
uno spirito cui l'acerrima febbre dell'arte non sia
sconosciuta, l'esposizione di un concorso. Il fervore in cui
le idee son nate, si sono definite, hanno assunto un volto
concreto nella solitudine della meditazione e dell'ansia,
non è più sensibile nell'adunanza eterogenea. Sembra
constretto per sempre, e come impietrito, in una forma che
ha natura transitoria, è un germe nato per continuare a
svolgersi. Inoltre, la promiscuità volgare avvilisce anche
le cose più sante: i pensieri più puri hanno qualche volta
vicina una accidentale parodia, che non li può diminuire, ma
li offende, ed irrita chi li vuol penetrare con mente
serena. L'esame è dunque attediato e pigro. Ma io ricordo la
nostra emozione quando ci apparve fra gli ultimi, sulle
spalle di quattro operai, il bozzetto di Eugenio Baroni. Ero
in un gruppo di concorrenti, taluni dei quali fra i più
generosi che avessero risposto all'appello. Come una
sferzata risveglia tutte le energie del corsiero, la
bellezza che si avvicinava dileguò in un baleno la
stanchezza che ormai ci aveva presi; e con un leale saluto
anche coloro che si sentivano vinti riconobbero che era
entrato il vincitore.
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In verità, il tema non avrebbe potuto essere svolto con più
perfetta integrità. Il basamento ignudo ha la forma del
tronco di piramide, è l'imagine del cratere del vulcano,
dell'ubero pieno, di qualunque forma viva, che si gonfii per
generare. Nascono dal suo vertice, ed in parte aderiscono
ancora alle sue pareti scabre, gli uomini: compatto manipolo
di attorti corpi e di membra allacciate, gagliardi esseri
dalle attitudini di stupore e di sogno. Chi li estrae dalla
matrice, con tanta forza?... Domina il gruppo, e lo sovrasta
e lo avanza, l'ingente figura del Liberatore, del
Condottiero. Mai, i due attributi gli si adattarono meglio.
E' il suo petto leonino, son le spalle possenti, che
attraggono e trascinano la falange. Gli adolescenti dai
muscoli tesi e leggeri, gli anziani più membruti e più
gravi, appena si sciolgono dagli impacci che li avvolgono, e
già si trovano schierati dietro a lui, che non li guarda e
non li numera, ed ha gli occhi rivolti alla meta
infallibile. Tutti tendono verso di lui gli incomposti moti
degli nomini, come gli aghi delle bussole verso l'astro
polare. Altri uomini, tutti i Mille, e gli altri — quelli
suscitati in Sicilia dalla vampata accesa che si propagava,
e quelli che Bertani confilmava a raccogliere in Genova
incamminandoli sulle orme del Duce — tutti coloro che
accolsero l'invito omerico: Io offro a chi mi vuol
seguire fame sete fatiche combattimenti e morte — tutti
coloro che dietro il sorriso impavido furono sempre
invincibili — seguiranno questi pochi che vediamo; ma essi,
in quel breve gruppo serrato, sono l'avanguardia e l'imagine
di tutti, sono la poca favilla che generò la gran fiamma.
Sopra il manipolo, si stende il volo di una Vittoria, che
non precede, ma segue; con la fedeltà di quella che in Atene
aveva dismesse l'ali per non allontanarsi più dal colle
sacro. E la ghirlanda ch'essa porge non si posa, non si dona
ancora; ma è già promessa e intorno al capo del Duce si
disegna come un'aureola. Vedete dunque in un rapido scorcio
raccolto e riassunto l'intero fondamento storico del nuovo
peana: che nell'inizio esiguo e nel trionfo ha i suoi
capisaldi.
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Se pur remotamente, anche questo nuovo poema nasce dall'Inno,
dal canto di battaglia delle Camicie rosse. Sembra
vieto ormai ed esausto, il suo ricordo: ma è irresistibile.
Luigi Mercantini, coni componendo la sua modesta poesia, non
prevedeva certo di segnare all'arte un limite così
fermamente insuperabile. Ogni volta che la fantasia più
commossa e più libera si raccoglie a meditare sull'epopea
garibaldina, inevitabilmente ritrova in fondo ai suoi
pensieri, in forme sempre nuove ma sostanzialmente
immutabili, quell'immagine unica. Si scopron le tombe, si
levano i morti. Ad essa riconduce il famoso bozzetto di
Bistolfi per il monumento di Milano; vibra di essa questo
gruppo di Eugenio Baroni. Il quale ne ha veduto con intuito
geniale una incarnazione puramente plastica, che superando
ogni riscontro letterario assurge alla sintesi senza
fermarsi all'episodio. L'evocazione metaforica gli è apparsa
in tangibile verità sotto la specie delle sue visioni di
scultore; e nella mole compatta egli ha tentato, ancor più
che l'esaltazione, la semplice attestazione del miracolo.
Vivono e fiammeggiano, nei miei ricordi d'infanzia, alcune
parole di Anton Giulio Barrili commemorante in Chiavari
Garibaldi: Pompeo disse, che battendo il piede sulla
terra ne escono dei soldati. Pompeo lo disse, e Garibaldi lo
fece. Il bronzo di Eugenio Baroni enuncia il medesimo
pensiero. Quel corpo che, solo, d'innanzi all'Animatore,
giace immoto ancora, salma sepolta, pare attenda la percossa
taumaturgica del suo piede per alzarsi vivente ed armato.
L'audacia con cui il giovane scultore affronti l'imagine che
gli era apparsa nell'anima a guisa di sirena tentatrice e
perfida, non era senza pericoli. La scoltura di idee
è ancora più ardua della pittura di idee. Ma il
Baroni non ha cercato transazioni e compromessi. Egli ha
deliberatamente spogliata di ogni attributo terrestre la sua
visione; le sembianze mortali di Garibaldi sono appena
adombrate nella sua figura simbolica; e persino la
puerilità degli indumenti è stata del tutto abbandonata,
di che la giuria del concorso non ha trovato motivo per
lagnarsi. In verità il dispregio — già ammesso, ma per
motivi particolari, nel monumento a Vittorio Emanuele II in
Roma — la vergogna dell'aspetto reale, delle assise dei
soldati della patria, le quali pur non mancano di carattere
e di bellezza, e ad ogni modo furono santificate dal
martirio, è probabile che dispiacerà ai nostri posteri. I
grandi artisti del Rinascimento, non che spogliare, o
vestire di toga, le imagini dei loro contemporanei,
coprivano delle proprie fogge anche gli eroi dell'antichità
ed i patriarchi e i profeti. Ed ora non si potrà più
sorridere del Napoleone ignudo di Canova, poi che fu
sentito il bisogno di rappresentare ignudo anche Garibaldi.
Il ricorso alla nudità generalizzatrice e senza tempo può
provare una deficienza, una confessata incapacità di
estrarre da qualunque vero, anche il più umile e dimesso, la
bellezza che esso incontestabilmente racchiude.
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Tuttavia, l'impulso che ha mosso e guidato Eugenio Baroni
merita di essere capito e rispettato. Critiche come quelle
accennate sono più esteriori che intrinseche. Certo, le
schiette forme senza veli sono state sempre predilette dagli
scultori, come le più espressive ed eloquenti; ma qui non
siamo innanzi a una vanitosa ostentazione di virtuosità
plastica, di dottrina anatomica. Riconosciamo piuttosto, che
il carattere essenzialmente lirico della concezione esigeva
una libertà davvero senza confini. Il Baroni, rinunciando a
rifare ancora una volta il gruppo di volontari più o meno
esattamente somiglianti, di cui già abbondano i saggi, ha
voluto vivere un sogno, che non poteva discendere dal suo
cielo. Ha voluto tentare in una scena sola l'interpretazione
del dramma intimo che è la base discutibile ma incrollabile
del fenomeno
garibaldino; ha voluto cercare, più che l'emblema, la
definita e concreta imagine del fascino arcano e della sua
potenza ideale, del fascino che ieri si è chiamato Garibaldi
ed avrà forse un altro nome domani.
Questo ha voluto, questo ha ottenuto. Il profilo intero del
monumento, tutto saliente e corrente verso la figura
prodiera dell'Animatore, quel senso di concorde movimento
per cui il gruppo sembra portato da una zattera navigante su
mare calmo; le attitudini delle figure, sommosse da un vario
tumulto, ed esprimenti in fatica ed in spasimo tutto lo
sforzo della nascita alla vita nuova — lo sforzo titanico
di sollevare la gravezza della morte perchè il !or creatore
in piedi la foggi in immortalità - tutti gli elementi,
infine, sono essenziali e sinfonici; onde la vibrazione che
si effonde dalla scultura è violenta e travolgente; è una
voce sola, un solo grido che sale, puro e diritto come il
filo di una spada levata verso il cielo. Liberandolo da ogni
scorie ornamentale o retorica, risolvendone qualunque
ambiguità, il Baroni ha voluto rivelare intatto il suo sogno
con una purità candida e austera. E' possibile e
comprensibile che anche le assise gli sieno pesate come un
ingombro opaco ed inutile, che potesse turbare, con la sua
impronta materiale e individuale, la serena immaterialità in
cui egli ha voluto esaltare questo che già ci appare il più
bel mito italico, consacrandolo fra i miti eterni in cui
vivono e si perpetuano le fidi provvidenziali verità.
Stiamoci paghi di questo; e non perdiamoci nel vano e
puerile giuoco di sofisticare se un ugual risultato plastico
si potesse ottenere anche vestendo di panni gli eroi
sorgenti dal mistero. La bella ed alata relazione dei
giudici del concorso, stesa da Aristide Sartorio, si
chiudeva con l'augurio che Eugenio Baroni compisse,
interprete della gratitudine italiana, quell'opera grande,
sia per significato morale che per nobiltà d'arte, quale il
suo bozzetto faceva presagire.
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Ora, quando l'opera terminata apparve per la prima volta
svelata al sole di maggio, ed un brivido sembrò correrla
tutta, in mezzo agli evviva ed alle musiche, coloro che
avevano avuto fede poterono gioire nel cuore come di una
loro vittoria. La commozione dell'artista ha palpitato
inestinguibile durante i cinque anni di lavoro. Niente si è
perduto per via. La variata movenza delle vedute, l'audace
novità di linee di atteggiamenti di forme, che erano come
imprigionate nella mole esigua, si sono spiegate e
allargate; pari a un corpo vivente il bozzetto è cresciuto
in tutte le sue membra e si è fatto gigante. Abbondano i
pezzi di modellatura veramente magistrali; e la figura di
Garibaldi ha toccato il suo segno. La testa può francamente
vantare la sua discendenza ideale — che può essere
inconsapevole — da due magnifici esemplari della scoltura
italiana contemporanea. Dico il Cristo morto di Domenico
Trentacoste, ed il monumento a Segantini di Leonardo
Bistolti. La statuaria moderna, dopo aver imparato a
intagliare la pupilla per dar più vivezza allo sguardo, ha
imparato a superare quella sua conquista, abbandonandola
ogni qual volta le occorra di suscitare una luce più alta di
quella che splende negli occhi mortali. E le mani, quelle
mani enormi pronte a qualunque atto di lavoro o di comando,
bene appartengono a colui che
. . . . . . . alle carene fu calafato
fu mastro d'ascia, artiere d'ogni arte.
Non si sa se le gonfii di sì gran vene la possa dell'opera
compiuta o di quella ch'è da venire.
Pochi sanno, e soltanto chi è stato vicino al Baroni durante
la sua fatica lo può testimoniare, con quale disciplina egli
siasi votato al suo travaglio, e per quanta ubbidienza egli
abbia meritata la vittoria. Tutte le figure del suo
monumento sono state modellate a tondo intero, e taluna più
e più volte, con una probità senza pari. Il gruppo intero è
stato composto e ricomposto, aperto e sconvolto, quasi che
il fuoco dell'anima che lo plasmava, per fonderlo, dovesse
penetrarlo oltre che avvolgerlo. Fra gli studi elementari,
parecchi meriteranno d'esser conservati; poiché rare son le
accademie che abbiano una così sobria compiutezza di
analisi, tanta castigatezza di forma, un'épiderme
così frémissante.
O Mille!... In questi tempi di vergognose miserie, giova ricordarvi. Così
comincia Garibaldi, nelle sue Memorie, il racconto della
spedizione di Sicilia. Giova, veramente, ricordare anche
oggi.
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Nessun simulacro umano, mai, apparve in un'ora più ansiosa e
più grave di fati. Il trofeo che i Greci, con mani ancora
sanguinose, componevano sul campo della battaglia con le
armi e con le spoglie dei vinti, consacrava una vittoria già
ottenuta. L'imagine dell'Alfiere che i Milanesi
donavano a Torino nel 1856, e che Vincenzo Vela aveva
scolpito nel marmo con mani frementi, era l'incitamento alla
prosecuzione di un moto che era già fatto azione potente ed
ormai infrenabile. Ma questo monumento che la Liguria ha
inalzato a Garibaldi e ai suoi Mille presso lo scoglio di
Quarto, viene in giorni che sognano il loro domani senza
conoscerlo.
E' nell'aria quel silenzio plumbeo che precede e annunzia la
tempesta nell'estate afosa: la luce si fa grigia, il vento
passa a raffiche irate, ed anche la cicala ammutolisce. Il
fremito dell'aria infuocata pare un brivido che riscuota a
quando a quando la campagna intera; ma la folgore è ancora
annidata nelle nubi nere, e non esplode... Vivono soltanto
la fede e l'attesa, in questa grande ora taciturna; vive la
promessa che nell'adunata di Quarto eruppe da
migliaia di petti giovani.
Chi scrive, ha vissuto quell'ora vicino alla fiera canizie
di Ricciotti Garibaldi; ha veduta come specchiata negli
occhi dei suoi figli l'orazione di Gabriele D'Annunzio. Nei
sussulti che rispondevano alle apostrofi sul volto
pallidissimo del primogenito, quegli dalla gran fronte;
e nel sorriso fresco di quella giovinetta ultima nata che è
la perfetta imagine dell'Italia, trionfante o schiava,
redimita di lauro o avvinta di catene, ricorrente nelle
stampe romantiche, l'anima di tutti noi che siamo pronti era
affannata da un anelito mortale. Quando? Quando?
Niente è mancato, alla suprema bellezza dell'ora. Non la
nobiltà dell'arte evocatrice — non l'altissima parola del
poeta — non il consenso unanime di un popolo innumerevole —
non la presenza del velivolo incarnante il terrore e
l'artifizio molteplice della guerra nuova — non l'assenza
del Re, che apparve, ed era, il segno di una vigilia d'armi
improvvisa.
Forse, quando queste linee saranno stampate, l'enigma sarà
sciolto: e le mani che hanno lavorato il bronzo eroico, e
queste che ne hanno composta fraternamente la lode,
adempiranno ad altri uffici più rudi. Ma mentre l'atroce
mistero ci tiene, nessun oroscopo potrebbe essere più
favorevole. Mai in ora più degna l'imagine di Garibaldi e
dei suoi avrebbe potuto risorgere, mistica e tutelare
apparizione, sulla spiaggia del mare che fu solcato da loro,
Argonauti d'Italia: nessuna stirpe del mondo potrebbe
rinvenire, nelle reliquie della sua storia, un auspicio più
eletto e più certo alle sorti ignote: ed il monumento ai
Mille che si è consacrato sul mare è un presagio ed un
sacramento di bronzo.
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Genova, 15 maggio 1913.
Mario Labò.
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