Pillole d'Arte

    
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(Fonte : Emporium - nr 326 - Febbraio 1922)

Bernasconi, Viviani e Marchini alla Galleria Pesaro


Di tutte le mostre personali succedutesi nella Galleria Pesaro dalla sua fondazione, quella che riunisce le opere dei due pittori Raoul Viviani ed Ugo Bernasconi e dello scultore Vitaliano Marchini mi sembra la meno significante.

A guardar le tele di Viviani e a leggere, sul catalogo, le prime parole della prefazione con cui Wildt li presenta e definisce, questi tre artisti : « L'arte non copia la natura », vien fatto di pensare, malgrado la verità un po' ovvia ma valida in ogni tempo dell'aforisma wildtiano, che se il nostro pittore si mettesse una volta tanto a copiarla la natura, e non dico da fotografo, questo esercizio, dopo tutto, non gli farebbe male. Imprimere nel paesaggio il proprio sentimento, vederlo con gli occhi della fantasia, far esprimere ad un albero accentuandone in un dato modo la forma, e ad un'armonia di toni bilanciandone secondo certe misure i rapporti, quello che gli si vuol far esprimere: ottime cose e praticate da tempo. Ma l'albero ha da essere quel dato albero e i rapporti han da essere giusti. Il modo migliore per interpretare con intensità d'espressione un pezzo musicale è di saperlo a mente, e il modo migliore di rendere poeticamente il vero in un quadro non è diverso. Nessun artista ha tanto bisogno di studiar «la natura» quanto l'artista che non la copia. Solo chi ne conosce a fondo le leggi può ricrearla a sua posta.

Ora, il Viviani è forse un pittore pieno d'impulsi poetici; ammettiamo anzi senza discussione che lo sia. Ma non ammettiamo, almeno per nostro conto, che poesia in pittura significhi disinvoltura, e che la braveria equivalga alla bravura. Ho sentito un osservatore ingenuo chiedere timidamente dinanzi a certo paesaggio intitolato La strada di campagna, se quella fosse proprio una strada o non per caso un torrente di lava o magari un fiume di melma. L'angosciosa incertezza dell'ingenuo osservatore era senza dubbio esagerata: ma in fondo al suo dubbio c'era una critica abbastanza sensata di questa pittura del Viviani, informe ed approssimativa, fatta d'ingredienti romantici mal digeriti e di insufficienze che si dissimulano sotto l'etichetta di uno stile. Il quale, a bene intenderci, non è stile, ma è maniera, e per intenderci meglio, è ricetta, applicata invariabilmente, senza inquietudini, senza ansie di ricerche, senza sforzi d'interpretazione.

Lo stile nasce di dentro, ed è una cosa viva e istintiva e in continuo divenire; una forza creatrice come appunto la natura. La maniera è tutta esterna, convenzionale ed immobile. E meno male quando s'aiuta con un po' di buon gusto e d'abilità. Ma guardate le tele del Bernasconi, sciatte nel disegno, sgradevoli ed acri di colore, con di buono solo quel tanto che l'artista ha tolto in prestito un po' dal Cremona e un po' dal Carriere in certe profondità d'ombre e contrasti di chiaroscuro. Che se poi si passi da questi due pittori allo scultore Marchini, l'impressione di manierismo, difetto comune a tutti e tre, s'aggrava, non essendo nemmeno inedito come formula, ma di seconda mano. Wildt è quello che è: si può amarlo o detestarlo: la sua arte eccezionale risponde al suo modo eccezionale di sentire, e nell'esprimerlo egli reca una conoscenza della forma e una padronanza della tecnica innegabile anche da chi non l'ammira. Ma d'una seconda edizione di Wildt, non riveduta e alquanto scorretta, francamente, c'era proprio bisogno ?