Pillole d'Arte

    
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(Fonte : Emporium - n° 135 - Marzo 1906)
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Angelo dall'Oca Bianca

Cinque o sei lustri fa, la pittura di genere, la quale, dopo i successi ottenuti dalle piccole e garbate tele di ispirazione patriottica o patetica dei fratelli Indurlo, era stata alquanto trascurata per quella di soggetto storico, romanzesco od anche militare, mentre quella di paesaggio, che, pure procedendo a lunghe e sicure tappe da Giacinto Gigante e la Scuola di Posillipo a Giuseppe Palizzi ed Achille Vertunni, da Antonio Fontanesi e dai Macchiaiuoli toscani a Giovanni Segantini, doveva per vario tempo ancora venir considerata come un genere inferiore, otteneva di nuovo in Italia le simpatie e le ammirazioni del gran pubblico, lieto sempre di non essere obbligato a fare qualche sforzo cerebrale per comprendere ed apprezzare ciò che si presenta ai suoi occhi, di sentirsi conquistare, più che dalle intrinseche doti tecniche, dall'elemento rappresentativo od aneddotico e sopra tutto di ritrovare effigiata sulla tela e talvolta piacevolmente truccata la realtà di tutti i giorni.

II carattere d'osservazione regionale, che, in quel medesimo torno di tempo, trionfava nella novella per merito dell'arte vigorosa ed evocativa di Verga, di Capuana, della Serao, di D'Annunzio e di qualche altro minore, nella poesia in vernacolo, di accento ora drammatico ed ora umoristico, del romano Pascarella, di sapore per solito sentimentale del napoletano Di Giacomo e di mordace malizia del pisano Neri Tanfucio, ed infine nel teatro dialettale, che aveva trovato i suoi campioni più efficaci nei due veneziani Giacinto Gallina e Riccardo Selvatico, affermavasi altresì nella pittura, dandole uno speciale e gradevole accento popolaresco.

Naturale era che Napoli e Venezia, presentando per la luminosa bellezza del paesaggio e pel pittoresco tipo degli abiti sgargianti e di bizzarre costumanze delle loro popolazioni, fra tutte le città italiane, motivi più numerosi ed attraenti alla tavolozza di un artista, dovessero essere le maggiori ispiratrici di questo rinnovamento della pittura di genere e che a Napoli ed a Venezia dovessero sorgere i più significativi rappresentanti di essa. E, difatti, mentre al sud d'Italia Edoardo Dalbono affermava sempre meglio la seducente sua personalità, al nord appariva Giacomo Favretto, ma, se il primo, per le sue doti affatto individuali di visionario del pennello e di trasfiguratore e glorificatore degli spettacoli naturali e dei costumi e degli episodi della clamorosa esistenza della plebe napoletana, pure esercitando una larga influenza fra i suoi compatriotti, non diventava un capo-scuola, il secondo, invece, più ligio alla piccola verità quotidiana e d'indole più novellistica, riusciva a suscitare nel Veneto una larga falange di imitatori, fra cui ben presto ecceller dovevano, trasformandosi e presentandosi più spiccatamente personali in un secondo periodo della loro fortunata carriera, Ettore Tito, un napoletano di nascita diventato veneziano per lunga permanenza nella città della laguna e per vivo amore alla sua patria adottiva, Luigi Nono ed Alessandro Milesi, due veneziani puri e schietti, ed infine il veronese Angelo dall'Oca-Bianca.

Di Edoardo Dalbono ho avuto già occasione di parlare a lungo, qualche anno fa, ai miei cortesi lettori dell'Emporium; in qunnto a Giacomo Favretto, se egli non è stato di coloro che sonosi elevati od almeno hanno tentato di elevarsi fino alle più alte cime dell'arte, possedette però una originalità tutta sua e doti non comuni di colorista. Se, quindi, non può venire proclamato, siccome vorrebbero alcuni fin troppo ferventi suoi ammiratori, nè un innovatore nè un precursore, devesi però riconoscere che il suo esempio è riuscito, almeno in un primo momento, assai giovevole all'odierna pittura veneziana, richiamandola verso quella vera ispiratrice d'ogni artista che è l'umile realtà, mentre essa miseramente intristiva sotto la duplice influenza di un gelido accademismo e di un pomposo e vacuo romanticismo.         

Ma può e deve essere egli considerato un realista del pennello? Il suo non fu, di sicuro, un realismo austero e rigoroso, come ad esempio quello del Millet, giacchè egli non si fece mai scrupolo - e tanto meno ancora se ne fecero i suoi discepoli - di ritoccare e di ringentilire il vero, pur di piacere al pubblico, ma, d'altra parte, si sarebbe ingiusti non riconoscendo che alla realtà egli chiese l'ispirazione od almeno una guida ed un riscontro per tutta intera la sua produzione. Enrico Thovez qualificava, tempo fa, l'arte sua realismo pittoresco e l'ambiguità dell'aggettivo mitiga con tanta cauta abilità ciò che evvi di troppo reciso nel sostantivo che io non mi periterei dall'accettare l'ingegnosa definizione del valoroso critico piemontese.

Osservatore attento ma alquanto superficiale del vero, creatore facile e spontaneo di figurine e di scenette improntate al più giocondo carattere veneziano, amatore dei gai contrasti di tinte vivaci, ecco come, in quasi tutti i suoi quadri, ci appare il Favretto, attestandosi in stretta parentela cerebrale coi meglio dotati fra i poeti ed autori comici dialettali della sua terra natale, dei quali egli possiede, tenuto conto della trasposizione dalle lettere alle arti belle, tutti i pregi e tutte le deficienze.

Malgrado che a tale pittura di genere il favore anche pecuniario di una parte del pubblico italiano e straniero siasi conservato immutato, la eccessiva banalità e mercantilità degli innumerevoli discepoli del Favretto, che bene possono, sotto più di un aspetto, paragonarsi a quelle dei seguaci dello spagnuolo Mariano Fortuny, doveva a poco per volta renderla alquanto uggiosa ed antipatica ai buongustai d'arte e persuadere i più coscienziosi ed intelligenti discepoli di lui a rinnovarsi ed a seguire diversi e più, complessi ideali d'arte. Un esempio tipico già da anni parecchi ne dà Angelo dall'Oca Bianca, ora vittorioso ed ora sconfitto, ma tentando e ritentando sempre, con lena nobilmente instancabile ed altamente lodevole, vie artistiche affatto diverse da quella in cui nell'età giovanile gli sorrise oltremodo lusinghiero il successo.

Fu a Verona che nacque da famiglia del popolo Angelo dall'Oca-Bianca nella primavera del 1858. Suo padre, modesto costruttore e verniciatore di carrozze, sentiva un segreto trasporto per la pittura, il quale lo spingeva, nelle rare ore di libertà, a ridipingere, con grande ardore ma con non meno grande imperizia, ogni vecchia tela, consunta dalla vecchiaia, che gli capitasse fra mani. Una certa tendenza verso l'arte, specie verso la scenografia, avevano anche i suoi fratelli, morti in giovane età ed ai quali mancarono per affermare la loro vocazione forse soltanto gli studi necessari e qualche buona occasione.
 
In quanto ad Angelo, fino ai sedici anni non fu che un discolaccio attaccabrighe, che faceva disperare i suoi genitori. Morto il padre, le impellenti necessità della vita quotidiana ed anche, diciamolo pure a suo onore, il nobile orgoglio di non gravare col suo ozio e col suo appetito sul magro bilancio della mamma e dei fratelli, lo persuasero a fare i più umili mestieri, dal vetturale all'imbianchino, finchè, indottovi da due valenti e laboriosi ornatisti, che frequentavano la sua casa, incominciò a frequentare i corsi dell'Accademia di belle arti di Verona. Da principio non lo fece che per ragioni di sentimento e di amor proprio, ma, dopo qualche settimana, la passione per l'arte si rivelò di un tratto potente in insieme col desiderio di acquistare quella coltura che la sua vita di fannullone gli aveva fatta trascurare in modo davvero deplorevole.

Fu un'improvvisa ed esaltante febbre spirituale che lo assalse e che di lui fece un uomo nuovo, affatto differente da quello che era stato fin'allora. Essendo riuscito a richiamare subito su di sè l'attenzione dei suoi maestri per la vivace prontezza dell'ingegno, per la disinvolta franchezza del lavoro e per le non comuni doti di composizione e di colore di cui a poco per volta si mostrò dotato, egli divenne ben presto l'allievo favorito dell'Accademia veronese, ottenendo in ogni concorso a cui partecipava il primo premio con lode, e quando, dopo due anni di studi, incominciò ad esporre nella locale società promotrice di belle arti, conquistò di botto il favore del pubblico della città scaligera.

I primi quadretti di genere, Ripiego di un negligente, Le due orfane, Dolore e Buona digestione, quali patetici e quali umoristici, malgrado suscitassero lodi entusiastiche e venissero prontamente acquistati, se attestavano la buona volontà nella ricerca della forma del giovanetto non ancora ventenne, erano d'un troppo evidente convenzionalismo d'ispirazione e si risentivano della mediocrità dell'ambiente artistico in cui egli viveva.


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