Pillole d'Arte

    
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(Fonte : Emporium - Febbraio 1902)

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MARIO DE MARIA

 
Vi è una teoria (molto facile per quelli che amino più l'esercizio oratorio o letterario che la verità semplice delle cose) la quale cerca e vuol trovar sempre il più schietto rapporto fra gli individui e la espressione esterna delle loro facoltà, di qualsiasi sorta queste e quelle sieno. La teoria ha naturalmente il difetto di tutte le teoriche aprioristiche : che per essere consentanea a se stessa deve giovarsi di elementi contradditorii. Ma una relazione anche minima fra l'artista e la sua opera c'è; specialmente quando l'artista è un vero artista, ricco di facoltà geniali e individuali. Per cercarla, non bisogna appagarsi di guardare soltanto le linee esteriori e complessive della sua figura; a volte, il sentimento anzi si può cogliere soltanto in alcuni momenti patetici, in uno sguardo luminoso, in una esclamazione improvvisa.
Nel caso nostro di Mario De Maria, non c'è veramente da sottilizzare; la sua figura è solida, direi quasi quadrata, come di organica solidità appare ogni suo dipinto: e il colore e la vita delle cose fantastiche riflettono la più vivida luce nella sua eloquenza, irruente, incalzante, ma con un lampo di luce in ogni parola.  Per comprendere come tutto sia luce di colore e di armonia veramente vigorosa in questa tempra di pittore, bisogna sentirlo discorrere del suo filosofo prediletto, Arturo Schopenhauer. Egli lo ha letto e studiato lungamente, come non può non leggerlo e meditarlo chi ha sofferto aspramente del tormento morale della vita; e vi ha ritrovato il conforto più durevole e sicuro,impulso migliore a perseverare, per fare veramente della sua arte un argomento di gioia e di serenità. Non adunque il tradizionale atroce pessimismo, che si vuol persino personificato nel filosofo tedesco, ma la forza intima dell'essere e della volontà, ma la essenza vera delle cose, ma la trasformazione sublime della natura nell'arte egli ha saputo scorgere nella fervida immaginazione di Schopenhauer; e se n'è fatto un fratello spirituale, un fratello che non gli verrà mai meno, perché astratto dalle contingenze deplorevoli che ci soffocano, perché veramente semplice e grandissimo.

Ma di figure artistiche non vi ha penuria nel mondo, ne tanto meno nel bello italo regno. Nel De Maria la figura corrisponde all'anima dell'uomo ed allo spirito dell'opera, per virtù geniali in cui non hanno ultima parte la tradizione e il culto dell'arte, quasi non ininterrotti, nella sua famiglia bolognese. Un compositore di musica, un intagliatore di legno, un valoroso scultore furono gli avi insigni giustamente apprezzati ne' loro meriti, secondo i tempi diversi, dell'artista. Il quale, nato a Bologna nell'agosto del 1853, vi s'iniziò ben presto agli studii dell'arte, in quell'accademia che frequentò per sei anni dal 1872 al 1878, svolgendovi il tirocinio rituale delle classi, non senza intemperanze e scatti. Il Puccinelli (dipintore fiorentino di scene storiche non poco fosche e filacciose in cui mal cercava proseguire quell'indirizzo per cui l'Ussi non ci aveva offerto che un solo quadro) gli fu maestro di pittura: ma non ebbe per l'indocile allievo che il più solenne disprezzo. Naturalmente e da credere che il corpulento professore non fosse ricambiato di amore diverso.

A Bologna e a Livorno, così nel '74 come nel '76, egli espose i primi saggi delle sue originati ricerche; ma i luoghi e i tempi non erano i meglio adatti perché vi fossero compresi. Cosi, venticinquenne, si recò solo a Parigi, dove frequentò sconosciuto la scuola libera, ma più che tutto i Musei del Louvre e del Luxemburgo. E la compagnia serena e valida degli antichi e de' moderni maestri dell'arte vera fu per lui il massimo aiuto. Il che non tolse che le opere inviate alle Mostre di Torino e di Milano, nell' 80 e nell' 84, fossero rifiutate. Ma la fibra era forte ed era sana; ma la visione dell'artista splendeva netta e luminosa al giovane artista. Gl'insuccessi non lo piegarono ne lo ferirono, gli aggiunsero nova coscienza del proprio valore e nova serietà d'impulsi per attendere all'arte, con le forze concordi della mente e del corpo.
Un temperamento più debole, nelle sue condizioni di sufficiente agiatezza, avrebbe rinunziato alla chimera e si sarebbe facilmente acconciato a un placido vivere domestico. Ma la fiamma era alimentata da succhi vitali; non c' era vento che, pur piegandola, potesse impedirle di riappuntarsi al suo cielo. Roma, non meno che la grande metropoli francese, lo tenne indifferente per parecchi anni; ma gli concesse in Vincenzo Cabianca, più che un amico cordiale, un fratello di arte e d'indipendenza. E dall'inverno del 1882 a quello dell' 85 lavorò e lavorò febbrilmente, accumulando nel suo studio di via Margutta circa quaranta opere di proporzioni diverse e d'ispirazioni gagliarde e contrarie, ma tutte di una sostanziale freschezza e animosità personale.

 

Cosi l'ardore n'era sincero, che lo spirito suo non aveva bisogno alcuno di raffinatezze circostanti. Lo studio in una delle ultime vecchie case di quella via romana, che può ancora chiamarsi una cittadella dell'arte, aveva un' apparenza perfin troppo grave con tanti paesaggi attaccati alle pareti, con tanti libri in uno scaffale. Una stranezza colpiva soltanto nell'entrarvi : una gabbia di legno, delle cui sbarrette un pacifico serpente allungava a volte la sua lingua sottile e flessibile. Ma la presenza del rettile non era li ad attestare simboli strani: il pittore l'avea trovato intorpidito in qualche suo fervoroso vagabondaggio per l'arse plaghe del Lazio, e ne aveva avuto compassione. Morto il serpentello, una gallinella ebbe l'onore di succedergli.
Si potrebbe anzi dire che l'austerità dell' ambiente sia stata e sia necessaria all'austerità del suo temperamento. Quando si trasferì nel caseggiato enorme schiacciante della stessa via, pur allietato internamente dal chioccolio delle fontanelle e dagl'intrecci delle piante rampanti, il suo studio in cima a una scala altissima appariva anche più nudo: e l'armatura ferrea grossolana di un qualche cavaliere medievale pareva stesse li a vigilarne il silenzio. Nessuno sapeva di lui. Lo vedevano cosi alto, forte, dal piglio quasi militate, coi baffi sgrondanti, coi capelli scompigliati su la fronte ampia, poco accurato nel vestiario: e lo stimavano al più, un benestante incapriccito a dilettarsi in pittura.
 
     Il solo Cabianca lo vigilava, lo amava, lo ammirava; e naturalmente non poteva tenersi di parlarne, decantandone le qualità, con gli altri amici ribelli, giovani e maturi, cui avvinceva un sano
amore per l'arte e lo sdegno per tanto mestierume di superficiale vernice spagnolesca, onde la capitale era invasa e asservita. Vinte le prime diffidenze, Nino Costa, il Morani, il povero Alfredo Ricci, il Carlandi, si recarono a fargli visita. L'impressione fu ottima: il momento era più che mai maturo per tentare una protesta collettiva nella capitale non ancora liberata da ogni servilismo a depravati gusti esotici. II signor Giorgi, ricco amico d'artisti, offrì un suo appartamento in via S. Niccolò da Tolentino; e nel 10 marzo del 1886 la Regina Margherita coronava col suo plauso l'ardita intrapresa dagli artisti su ricordati, cui vanno aggiunti Enrico Coleman e Alessandro Castelli e Lemmo Rossi-Scotti. Ma il vero trionfatore fu Mario De Maria: trionfo sincero, sicuro, senza riserve, concordemente affermato dai critici nostrani e ribadito dagli stranieri.
Delle 57 opere esposte, 18 gli appartenevano e gli appartenevano anche nelle caratteristiche designazioni che è prezzo dell'opera ricordare integralmente: L'uomo che dorme, Idillio, Una giornata nefasta, Luna, Un boulevard di Parigi (effetto di notte), Un canale di Venezia, Una sera sul Pont-neuf, Un raggio di Luna, Pavda domus magna quies, Via di Capri, Terrazza di Capri, Una sera in piazza S. Marco, Clausura, Danza di Satiri, Una notte nell'India (fantasia), Un raggio di speranza.

Se per consumata abilità e correttezza si poteva osservare che queste tele cedessero rispetto alle altre di artisti più provetti anche negli anni, l'ingegno straordinario del De Maria affermava una originalità indipendente baldanzosa che si rifletteva cosi
nella scelta varia e stravagante de' soggetti, come nelle qualità solide e brillanti della coloritura. Lo spettatore ne era cosi sbalordito, che veramente doveva molto raccogliersi per intendere e comprendere come la stessa agile mano avesse potuto dipingere il più vivo paesaggio al lume della luna e all'ardore del sole, un contrasto drammatico in uno spedale e una scena idillica di giardino settecentesco, le atrocità della peste e la malinconia di una sera a Parigi; ne tanto meno avrebbe saputo ricollegare così alla prima, la fantastica evocazione di una sacra notte sul Gange, con una scena di classici satiri o con l'altra delle pastorelle romantiche. Doveva quindi parergli - almeno per la consueta abitudine delle mostre - che le qualità essenziali e personali dell'autore fossero per sfuggire ad ogni esame. Ma lo sbalordimento è sempre I'effetto più immediato che produce una complessa anima d'artista.

 Uno de' quadri più piccoli e più concordemente ammirato fu la Luna. Ancora nello studio attuale su la luminosa Giudecca un prezioso bozzetto ne è conservato gelosamente dall'autore. Piccola la tela, brevissimo nella sua irriducibilità il titolo : L'argomento quanto mai semplicissimo. Pareva veramente che in quel piccolissimo quadro la natura volesse far le vendette di tutte le affannose industrie ed astruserie umane. Un plenilunio smagliante in una delle più rustiche osterie del suburbio romano. Una doppia fila di tavole protendono lunghe e spesse ombre : un pezzo di tavola ancora nel buio: in fondo piante umide e sonnacchiose. Non il minimo ricordo di cene e di frastuoni : quelle rozze tavole si beano del lavacro lunare, come anime vive desiderose di pace.
Due anni fa ebbi l'agio di vedere all'esposizione triennale di Brera (a meno che il titolo mutato non volesse indicare una variante dell'antico motivo) l'altro celebratissimo quadro : Un raggio di speranza. Ne ebbi una granita impressione, come anche ne scrissi. Un triplice contrasto di luce: una ricerca che parrebbe macabra e che pure al pari della Luna non e che il prodotto di una intensa e semplice osservazione. La vetrata illuminata dalla luna si proietta nettissima e chiara in un camerone d'ospedale, rinfrangendosi anche su la coltre bianca del prossimo letto: un vecchio infermo vi sta immobile e guarda fisso i fumi azzurrini che salgono e si sfioccano davanti, da due braceri accesi. E i letti si allungano e si allungano sempre più debolmente, ravvivandosi in fondo, al chiarore giallognolo delle lampade, tra l'affaccendarsi degli infermieri intorno agli ultimi letti. Certamente in questo quadro il pezzo di pittura più solido e dominante e la bella fascia nivea della luna. Più vi si appressa e più se ne sente il fascino tecnico: iridescenze di perle, fumi di latte, vapori d'argento: trasparenze lievi e quasi volatili di azzurro e di verde.

Ma se queste due tele fermavano principalmente per concretezza di linea e di colore l'attenzione generale, le altre non apparivano meno suggestive. E in questa ammirazione la sorpresa dell'impreveduto e il contrasto degli effetti avevano la loro
buona parte. Dei due quadri parigini, l'uno notturno era una finissima degradazione di grigi, fra cui le fiamme dei fanali, i riflessi delle botteghe illuminate, la fioca luce trasparente dai vetri di un chiosco cosparso di avvisi multicolori mettevano giuste note più calde: un effetto vero e che pur non mancava di pensosa malinconia. L'altro e tutto un riverbero affocato di tramonto che pare il presagio di una grossa bufera. II quadro poi, premiato con medaglia d'oro a Berlino (Espos. del 1887), pare dipinto sotto l'impressione ardente d'una pagina del Balzac. La vettura e pochi operai che si affrettano sul ponte sembrano incalzati da un pauroso riverbero d' incendio. Egualmente notturni i motivi della Casa indiana e della Sentinella della Notte. Ma l'orrore profondo d'una notte senza lumi acquistava nella Giornata nefasta una nota straziante, anti tragica. La peste è a Venezia: tetra caligine incombe su le acque: e i becchini ammucchiano e ammucchiano i miseri cadaveri buttati dalle finestre : le lievi gondole cedono sotto l'immondo peso.

Nello scorcio dello stesso anno apparve la splendida edizione illustrata della Isaotta Guttadauro di Gabriele d'Annunzio. Vi concorsero con finissimi disegni il Cabianca, il Sartorio, Alfredo Ricci, e Carlandi e iI Cellini e il Morani e il Coleman.
Tre grandiose e misteriose fantasie erano di Mario De Maria. In due momenti diversi egli fermò il viaggio della donna cui saranno dischiusi i penetrali della magia. Nel primo i vecchi bianchi e taciturni seguono la donna cavalcante : una falce di luna li illumina a sprazzi passando traverso un groviglio di serpenti ; nel secondo possiamo scorgere un primo saggio di quella strana vivificazione umana della luna, di cui I'artista ci offrirà poi quadri completi. In fondo la stessa palude, ma più livida sotto lo sguardo della luna quasi piena e come invecchiata e trasfigurata in teschio sghignazzante: anche più spaventoso e il corteo delle nubi. ? Di un forte chiaroscuro e improntato al castello del Crimen amoris con uno svolo di bianchi pavoni.
E con più ardore e più complesso organismo egli si presentava alla Mostra particolare di quell'anno. Non gli mancò, nè pure il successo del gran pubblico : il silo quadro principale La peste di Roma nel 600 produceva tale impressione profonda, che gli spettatori non potevano tenersi dall'esprimere le proprie sensazioni ad alta voce. Quei morti accumulati sotto la coltre del barcone parevano veramente i soli esseri dell'esposizione (desumo il giudizio da un giornale del tempo) che avessero una forte e sincera vita. Ne il giudizio del pubblico era provocato da passione : a Monaco, nello stesso anno, il fortissimo quadro meritava una medaglia. L'artista vi rinnova magicamente i migliori effetti della sua tavolozza e dell'anima sua entusiasta di rievocazioni misteriose. E il mistero veramente vi si esprimeva per semplice potenza di colorito, poichè la scena era di una semplicità mirabile.


Una riva del Tevere nel crepuscolo : una barcaccia carica di appestati se ne distacca. Alla prua di essa una lampada che si riflette nell'acque livide della fiumana : a poppa, poi, ceri accesi nelle mani di frati preganti, su cui un grosso Cristo, fatto sanguigno dai riverberi, si protende minaccioso. E il viaggio della morte verso oasi serene che lo spettatore intuisce, sotto cumuli enormi di nubi plumbee ancora accese, lungo una massa bruna ed umida di case, dove brillano le prime finestre illuminate. Nessuna congerie di stracci o di putredine: un manto nero copre la bara acquatica: ma una lieve caligine che pesa su tutto, ma alcuni spiazzi fulgidi di sereno, ma un sentore dolcissimo di luna imminente aggiungono alla scena di morte un velo di poesia indimenticabile perchè profondamente sentito, perche integralmente reso con una tecnica sicura che non rifugge da sottili difficoltà, ma si fa per se stessa voce e mezzo di sentimento.
Perchè il lettore possa meglio intendere gli originali caratteri della pittura del De Maria, io debbo riferire alcuni periodi che stralcio da un animoso e vitale articolo che Angelo Conti, l'amico e il compagno cordiale dell'artista, l'anima ardente che sola ci potrà donare un vero e completo studio su l'amico, scriveva nella Tribuna del 1887.

" Mario De Maria nella sua straordinaria personalità artistica, si allontana da tutti i pittori contemporanei: egli sta con gli antichi, dai quali discende, e specialmente col Rembrandt, di cui é il continuatore, ma con un sentimento moderno ed individuale "

" Rembrandt e la luna, per una curiosa analogia col suo temperamento, furono il primo e sono ancora il grande ed unico suo amore. Un'acquaforte del grande seicentista ed una meravigliosa notte lunare, cagionano in lui due emozioni tra le più potenti e più feconde ch'egli possa provare. La profonda malinconia dell'anima sua lo ha inconsapevolmente trascinato a questi amori. Nel mistero della notte si schiude e si diffonde il suo pensiero, sdegnoso del mondo. Ov'è il silenzio, egli sente l'orchestra invisibile dello spirito; ove sono forme strane od indecise, egli vede le imagini sognate ed amate. E difficile poi immaginare qual fascino abbia per lui la luce lunare sulle vecchie mura dove par che si desti l'anima dei secoli, accanto alle ombre proiettate stranamente sul terreno da masse inesplicabili ! Egli non potrebbe dimenticare queste impressioni; nel suo pensiero rimane inalterato ogni loro incanto; rimane il mistero della notte affascinata dalla luna ; rimangono i raggi ed i colori, le tenebre e le ombre; e passano nei quadri, dove egli li chiama a vivere una seconda e più splendida vita......... "

 

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