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(Fonte : Emporium - Nr 351 Marzo 1924)
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In memoriam : Mario De Maria (Marius Pictor)
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Ricordare i successi romani di Mario de Maria; la vittoriosa
affermazione della sua giovinezza, per stabilire che da
allora contò nella vicenda della pittura italiana dell'
ottocento. Certo, quei lontani trionfi lo rivelarono in
quanto esisteva; ma la sua arte vera, l'arte per la quale il
nome di Marius Pictor doveva diventare e diventò
aristocraticamente popolare (sembra un giuoco di parole, e
non è) gli sbocciò dal pennello faticoso più tardi, non
appena il suo romanticismo esasperato dalle ricerche veriste
dei chiari di luna laziali trovò un poco di appagamento,
quasi requie, nella Venezia allucinata ch'egli visse
intensamente con lo spirito e sulla quale cominciò a deporre
le patine dei maestri cinquecenteschi da Tiziano a
Bonifacio. Allora parve a lui stesso di essersi trovato, e
la esuberanza del suo temperamento incandescente non ebbe
più limiti. Alto e largo sulle gambe forti, la faccia
asimmetrica, l'occhio di traverso, i baffi irti, insaccato
nelle più stravaganti combinazioni di pezzi di vestiti
diversi presi a caso in un armadio, la pipa tra i denti,
lento e sicuro, arguto e veemente, pieno di risorse verbali
e di mille aneddoti curiosi ch'egli raccontava con efficacia
scultoria; pieno di conoscenza di uomini illustri e
stritolatore implacabile di uomini illustri, ma bonario
infine, anche nelle sue demolizioni; distratto in chissà
quali pensieri ed attento, Mario de Maria fu
quell'interprete di Venezia che Edoardo Poe sarebbe stato
scrivendo: plasticamente evidente; ma tumultuariamente
soggettivo, interiore, arbitrario, drammatico.
Questa sua personalità, misuratasi sulla
cancredine dei muri, nei bui androni dei palazzi patrizi,
mantenne anche esulando dall'argomento e dal pensiero
assillante di quegli anni, verso il passato romano o
correndo in groppa alla fantasia per le vie dell'infinito.
L'Egloga e i Cipressi di Villa Massimo con
i quali tornava alla Roma amata in compagnia degli amici
dell'
In arte libertas, in compagnia di d'Annunzio e di
Conti, fra il sensualismo di Gabriele ed il casto estetismo
di Angelo, valgono come intonazione veneziana, il quadro
assurdo ma suggestivo e potente, che venne molto tempo
appresso del Ritorno della terna in grembo alla madre
terra e i vari tentativi del
Fontego dei Turchi. La sua maniera era stabilita. A
quella maniera appartengono le cose migliori della sua
guardinga produzione, che negli ultimi anni forse per una
minore reazione dell'artista alle tendenze altrui ed alla
tirannia della evoluzione del tempo andò smarrendosi in una
inavvertita disintegrazione di toni crudi, e di masse
incerte; finché la fonte si stancò e si inaridì.
Era nato a Bologna oltre settant'anni or sono in una
famiglia di artisti e di scienziati e studiò dapprima tutto
meno che la pittura la musica, sopratutto, per la quale -
orchestrale, sinfonica, da camera - gli rimase una passione
inestinguibile; che fu, poi, con la pittura la compagna
delle sue ore e che ebbe una importanza non lieve
nell'influenzare melodicamente la sua pittura. Ma quando si
dette allo studio della pittura vi si applicò con una
tenacia ed una disciplina che pochi, oggi, amano e
praticano. Ciò che, in fondo, meraviglia, perchè se ne togli
la ferma sapienza di alchimista onde le sue tele sono tutte
egualmente splendide di materia, il resto, la composizione,
il disegno, la ricerca del chiaroscuro, l'impostazione ed il
rilievo delle figure, la prospettiva, vi ha un non so che di
problematico, di incerto, di stentato da far dubitare che
l'artista possedesse veramente i mezzi di realizzare le sue
impressioni e le sue invenzioni.
Era ancora all'Accademia quando il Serra, che gli faceva da
maestro nel disegno di figura, gli fu egli guida ad una
esposizione Viennese. Viaggiò quindi per suo conto: a
Parigi, in Germania ; e non si ristabilì in Italia che nel
1880, a Roma. De Maria era di una sensibilità delicatissima;
a indagar bene, una per una le ragioni dei suoi quadri, si
troverebbe sempre in essi una determinante estrinseca a lui
medesimo. A Roma capitò in mezzo a gente di una personalità
intensa: riavvicinò il Serra, conobbe Vincenzo Cabianca e
Nino Costa, praticò quel giovine e brulicante mondo
Sommarughiano ricco di fermenti che insisteva fra la bohéme
all'osteria e l'aspirazione mondana, e viveva
intellettualmente in un modo fino ad allora inusitato in
Italia, cioè con energia spesso violenta. De Maria era un
energico ed un violento; ciò che assorbì, di tendenza e di
ispirazione dai suoi amici, egli organizzò massicciamente
nella sua personalità: le delicatezze di Costa e di Cabianca
divennero attraverso la sua elaborazione sensazioni rudi e
grevi di colore. Quando nell'86 si presentò al pubblico
romano insieme al gruppo In arte libertas, con una
ventina di opere, egli camminava già per conto suo, verso il
suo destino lagunare. E quando l' In arte libertas
si presentò a Venezia con una saletta di tele evanescenti e
levigate, sembrò impossibile che da quel gruppo fosse uscito
il De Maria delle scene macabre I monaci delle occhiaie
vuote, il De Maria del Settecento veneziano
rappresentato con sapore di cinquecentista, il De Maria
delle incrostazioni porcellaniche cui si precipitavano
dietro tanti imitatori.
Pittore nella accezione più golosa della parola perchè del
colore aveva una visione interamente sensuale e voluttuosa;
poeta perchè concepiva sempre i suoi quadri liricamente e in
preda a emozioni puramente letterarie, Mario De Maria stette
nel movimento pittorico italiano come un anacronismo
singolare. Verismo, impressionismo, le evoluzioni e le
involuzioni dell' impressionismo, furono per lui questioni e
termini lontani se non inesistenti. La natura l'appassionò
per quel tanto appena che bastava a trasformarglisi in
sogno, in immagini interiori complicate e avvolte da
atmosfere esclusivamente soggettive. Paesaggi e monumenti
furono pretesti a segregazioni interminabili nel suo studio,
e gli nascevano sulla tela, senza, forse alcun riferimento a
cose e luci concrete viste di fuori. Così la sua opera per
quanto possente, considerata sotto taluni aspetti dai quali
la critica non saprebbe oggi prescindere, apparisce si, un
blocco pieno di fascino e di attrazione, ma artificiosa. Fa
eccezione quel ch'egli dipinse di lunare. De Maria viveva la
natura di sera o di notte. Il paesaggio lunare, con le sue
fissità lapidee, col suo mistero latteo, con i suoi trapassi
netti dai toni algidi ai toni d'ombra fonda, bastava quasi
al suo spirito di romantico. Inutile, quindi, deformarlo od
interpretarlo soggettivamente; sufficiente, anzi,
interpretarlo oggettivamente, in quanto paesaggio, salva
talora, nella riproduzione oggettiva, la sottolineatura
letteraria a volte limitata a un titolo, spesso evidente per
la intromissione di elementi fittizi. Ma appunto perchè De
Maria applicava alla realizzazione obbiettiva del paesaggio
lunare tutta la spontaneità istintiva del suo temperamento e
tutta la esperienza raffinata della sua tecnica, appunto per
ciò i suoi quadri lunari sono quelli che più colpiscono, più
rimangono impressi. Chi dimenticherà l'incubo dello stanzone
dell'Ospedale degli infetti; chi la evidenza
formidabile di quel piccolo quadretto in cui sono allineate
poche tavole e poche panche di osteria, all'aperto in una
sera di luna ?
Cerchiamo di evocare sinteticamente, od anche
analiticamente, quello che fu ed è la pittura italiana
contemporanea. Pochissime figure emergono, con la loro
personalità, da un vasto mare di immagini banali e di sforzi
generici. Tra codeste pochissime, la figura di Marius pictor
è delle più tipiche. Figura di eccezione, che terrà sempre,
e col tempo sempre più, un posto a sè, in una specie di
isolamento interessante, sulle soglie del quale chi scriverà
un giorno per erudire gli altri, dovrà lasciare le
classificazioni ben ordinate ed i riferimenti dotti, per
limitarsi a comporre un maschio ritratto.
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Gino Damerini
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