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(Fonte : Emporium - Nr 114 giugno 1904)
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Necrologio : Franz von Lenbach
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Franz von Lenbach, il ritrattista illustre di Bismarck e
Moltke, di Mommsen e Virchow, di Leone XIII e Wagner, il
ritrattista ricercato di sovrani, di celebrità della
politica e della
guerra, dell'arte e della scienza, di grandi dame e di
attrici famose, che si è spento il 6 maggio a Monaco
sessantottenne, se non poteva proprio considerarsi come il
più geniale e
caratteristico campione dell'odierna pittura alemanna, ne
era certo, dopo la morte di Bòcklin, il rappresentante più
autorevole e magnificato, insieme col Menzel, pur tanto più
vario, originale e profondo di lui.
Esaltato in Germania ed in Austria, stimato in Francia, in
Inghilterra ed in Belgio come uno dei maggiori ritrattisti
dell'ora presente, la mostra particolare, fatta nel 1899 a
Venezia,
di diciannove sue bellissime tele lo rese popolare anche in
Italia, dove, del resto, già da tempo era conosciuto ed
apprezzato.
Franz von Lenbach, nato il 13 dicembre 1836 a Schrobenhausen,
piccolo villaggio della Baviera, incominciò a studiare
pittura sotto la guida del celebre colorista romantico
Piloty, ma coloro
che diventar dovevano i veri suoi maestri e dovevano
lasciare un'impronta indelebile sull'arte sua erano i grandi
pittori veneziani e spagnoli del passato e poi ancora
Rembrandt e Van Dyck.
Egli apprese a conoscerli e ad amarli allorquando, molto
giovane ancora, venne in Italia e vi si trattenne parecchi
mesi per copiarvi vari dei più famosi quadri delle
pinacoteche di
Venezia, di Firenze e di Roma per incarico avutone da un
intelligente, colto e ricchissimo amatore d'arte, il conte
di Schaak. Le copie riuscirono perfette ed il Lenbach non
dimenticò mai
più quanto nelle lunghe ore trascorse a riprodurre
fedelmente questo o quel capolavoro di Tiziano o Tintoretto,
di Velasquez o Murillo, di Rembrandt o Van Dyck aveva
appreso da tutti
questi gloriosi artisti, che avevano fatto di lui il più
sapiente artefice che possa forse vantare la pittura degli
ultimi cinquant'anni.
La cosa, difatti, che maggiormente colpisce chi contempli,
per la prima volta, una raccolta di ritratti del Lenbach è
il continuo richiamo ai maestri dell'antichità, dei quali
egli
riproduceva in modo difficilmente pareggiabile la larga e
sicura pennellata e la vigorosa modellazione e dei quali non
disdegnava di rievocare eziandio il ricordo mercé un
evidente
artificio di accorto copista, quello cioè di dare ad ogni
suo quadro la patina fra giallognola e rossiccia, che il
tempo suole deporre sulle vecchie tele. Guardate - per
citare due delle opere sue più pregevoli, esposte alla terza delle mostre
veneziane - il ritratto del professore Max von Pettenkofer
ed il nome del Tintoretto vi si presenterà subito alla
niente; guardate
il ritratto dell'imperatore Federico III di Germania, in cui
è così bene espresso il sentimento della maestà regale, e,
specie se l'occhio si fermerà sul solido impasto della
corazza aurea,
le vostre labbra, quasi senza volerlo, mormoreranno il nome
di Rembrandt.
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Eppure in queste ed in quasi tutte le figure ritratte da lui
sulla tela, mercé una tecnica in tanta parte suggerita dagli
antichi ma che egli aveva saputo così profondamente
assimilarsi da
rendere propria, Franz von Lenbach era riuscito a
trasfondere uno spirito moderno, che rende gli uomini e
sopra tutto le donne dipinte dal suo pennello nostri
contemporanei ed è proprio
ciò che forma la possanza e l'originalità dell'arte sua.
Ritrattista psicologo: ecco la lode che è stata fatta più
spesso e più volentieri al Lenbach da coloro che, in termini
spesso entusiastici, hanno parlato di lui e se con essa si è
voluto
affermare che nelle numerose sue opere si ritrovi qualcosa
dell'angosciata anima moderna, benché un po' camuffata alla
500, io credo che nessuno possa disconvenirne. Se invece
però si è
inteso proclamarlo quel confessore d'anime, che, secondo una
definizione famosa, dovrebbe essere il ritrattista per
eccellenza, allora parmi che si possa muovere qualche
obbiezione, la
quale, senza scemare di molto il merito reale dell'illustre
pittore bavarese, di cui la Germania ora piange la
scomparsa, gioverà forse a meglio precisarne la particolare
fisionomia
estetica.
Anche ad un osservatore superficiale dei quadri dipinti con
tanta sapienza dal Lenbach appare evidente che la maggiore
cura di lui era di dare ad ogni suo ritratto un'eccezionale
intensità
espressiva. E' per ottenere ciò che egli trascurava per
solito i particolari dei vestiti - eccetto nelle donne, di
cui formano tanta parte - e del resto della persona, onde
richiamare tutta
l'attenzione del riguardante sulle fattezze del volto e in
ispecie su quegli elementi che ne danno meglio il carattere,
cioè la bocca, gli occhi, le ciglia e le rughe della fronte,
e dei
quali, sovente, ad ottenere maggiore efficacia
rappresentativa, lascia trasparire, dietro una lieve
velatura di colore, le sagome a matita del disegno di
preparazione. E' per ottenere ciò
che egli quasi sempre proiettava teatralmente un fascio di
luce sulla faccia d'ogni figura da lui dipinta, facendone
brillare le pupille mentre tutto il resto della tela
rimaneva in una
penombra brunastra. Se guardasi con una certa attenzione,
l'una dopo l'altra, una serie di tele del Lenbach non si può
non rimanere colpiti da una rassomiglianza d'espressione
complessiva,
che, nell'identità della posa, nella fissità severa dello
sguardo, nella mancanza di sorriso perfino nei bimbi dalle
faccine attonite e precocemente tristi, apparenta tutte le
figure virili
o muliebri in esse ritratte.
Io adunque mi sono persuaso che Franz von Lenbach, invece di
possedere quell'obbiettività perspicace, che parrebbe dover
essere la dote precipua di un ritrattista fedele sopra tutto
al
vero, fosse dominato da una soggettività imperiosa, che lo
sospingeva a trasfigurare, secondo una particolare sua
visione alquanto magnificatrice, ma limitata ad un certo
numero ristretto
di tipi, i modelli che posavano dinanzi a lui. A
riconfermarmi anche più in tale persuasione è valso l'abuso
che egli faceva, per affrettare il suo lavoro, della
proiezione fotografica,
siccome è stato accertato da più di un critico. Si direbbe
quasi che il Lenbach, intuito che avesse il carattere
psicologico del modello, s'infastidisse di averlo presente e
ne fissasse
subito sulla tela con la fotografia i lineamenti atti ad
assicurare la rassomiglianza fisica, per potersene
sbarazzare e poter lavorare da solo a ricreare la speciale
visione che la sua
mente se ne era foggiata e che talvolta si confermava quasi
del tutto alla realtà, come nel caso dei parecchi ritratti
di Bismarck, e tal'altra se ne allontanava quasi del tutto,
come nel
caso del ritratto di Eleonora Duse.
E non mi periterei di concludere che le figure glorificate
dal pennello del Lenbach stanno al vero come i personaggi
dei romanzi e dei drammi storici stanno ai personaggi reali
di cui
portano i nomi e pretendono d'incarnare i sentimenti e le
passioni. Come che sia, dinanzi agli stupendi ritratti dagli
occhi luminosi, che nessuno mai forse ha meglio del Lenbach
dipinti e
resi degni della vecchia ed efficace definizione di finestre
dell'anima, l'ammirazione per l'arte sua, mescolanza geniale
d'antico e di moderno, di realtà e di fantasia, s'impone
prepotentemente.
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Vittorio Pica
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