|
(Fonte : Emporium - Nr 314 Febbraio 1921)
|
|
Sartorio alla Galleria Pesaro
|
|
Nel breve giro di tre anni Giulio Aristide Sartorio
ha tenuto, a Milano, tre esposizioni delle sue opere. La
prima fu quella organizzata nel dicembre 1917 dalla Galleria
Centrale d'Arte: c'erano le tempere dell'Agro, uno
degli studi per la Diana di Efeso che figurano,
accanto al quadro, nella Galleria Nazionale di Roma, e
alcuni bellissimi saggi di scultura e studi d'animali. La
seconda l'avemmo alla Scala nel 1918, e comprendeva i quadri
di guerra eseguiti alla fronte italiana: la serie del Carso
e la serie del Piave. Con questa terza esposizione, che è
tanto numerosa di opere da riempir quasi le molte ed ampie
sale della Galleria Pesaro, il ciclo si può dire integrato e
compiuto. Se non si risalga alla maniera giovanile del
pittore, al suo periodo fortuniano e preraffaellita, od a
certe tele di gran mole, come appunto la Diana di Efeso
e La Gorgone e gli Eroi.
Sartorio non ha più misteri per gli ambrosiani. Il pittore e
lo scultore, l'animalista ed il paesista, l'incisore in
legno ed il decoratore, ci son divenuti familiari. Anche il
decoratore, poiché nella Galleria Pesaro tutta una sala è
occupata dagli studi per il grande fregio del Parlamento.
Rigorosamente parlando, questa terza mostra non ha un grande
interesse per gli amatori d'arte: né come mostra
retrospettiva, che ad esempio il gruppo più folto dei quadri
esposti, le tempere della Campagna romana, è in buona parte
quello già veduto nel 1917; nè sotto l'aspetto della novità,
riducendosi le opere inedite ad un gruppo esiguo in
confronto del resto, formato dalle impressioni d'Oriente e
da alcune silografie. Ma questo non significa che la nuova
raccolta non abbia una sua plausibile ragion d'essere per
l'artista e per il pubblico.
|
Si è un poco ingiusti con i pittori e gli scultori quando si
contesta ad essi il diritto di esibire ripetutamente le loro
opere, mentre universalmente si ammette che un commediografo
possa ripresentare ogni anno agli stessi spettatori la
medesima commedia. Forse i critici troveranno in queste
"repliche", scarsa materia di discorso: la qual cosa non è,
in fondo, un male deprecabile, né fortemente sentito. Ma per
il pubblico, talvolta, repetita juvant; e rinnovar
la conoscenza con un artista, e approfondire dinanzi ai suoi
quadri la propria impressione, può essere, come nel caso
presente, un diletto che mette conto di rigodere. Così è,
appunto, della serie dell'Agro. La Campagna romana si
direbbe il ritornello della pittura sartoriana. Il Sartorio,
sempre curioso di muove esperienze, avido di sogni nuovi,
esplora tutte le vie: torna di quando in quando al
simbolismo che gli fu caro, tenta il quadro di vaste
dimensioni e significazioni; imbevuto di tradizione classica
e di cultura, resuscita fantasmi dal mondo pagano e dal
mito; sensibile alla profonda poesia della storia, rievoca
in allegorie grandiose i fasti di nostra stirpe. Ma la
Campagna romana è la sua passione costante.
|
Recarvisi, com'egli fa periodicamente, a diprogenie gli
aspetti così desolati a un tempo e solenni, e il suo modo di
riposarsi. Aristide Sartorio - scrisse una volta l'Angeli -
le deve molto. Si può anzi dire che nello studio dell'Agro,
quando anche il suo spirito era soggiogato dalle formule
fortuniane, egli abbia trovato gli elementi della sua
liberazione. E in seguito cercò sempre di pagare questo suo
debito di riconoscenza, illustrando, come pochi hanno fatto,
il luogo unico al mondo che gli aveva dato due volte la
vita. Perchè la Campagna romana di Aristide Sartorio è
veramente quella che i nostri occhi hanno visto e il nostro
spirito ammirato. Non ha il romanticismo malinconico
attraverso il quale la videro i pittori francesi nel 1830,
né la durezza scolastica dei classicizzanti tedeschi.
Partendo dal principio che ogni angolo dell'Agro forma di
per se stesso un'ammirevole composizione, egli non ha
cercato i così detti "punti di vista" e il raggruppamento di
certi elementi cari ai suoi antecessori. Una scalarola che
traversa la "Marrana" gorgogliante tra le mazze sorde e le
cannucce, un monticello solitario che serve come di
piedistallo a un taciturno pastore, una plaga arata dalle
lunghe file dei candidi buoi, un branco di pecore che segna
quasi la curva di un avvallamento, le mille insenature del
fiume biancheggiante di vetrici sulla biondezza della sabbia
d'oro, sono per lui visioni altrettanto grandi e altrettanto
belle - se forse non più - di quello che erano un tempo i
monumenti famosi e i ruderi illustri, intorno ai quali si
erano esercitate le tavolozze dei paesaggisti romani.
|
In queste tempere della Galleria Pesaro tali motivi si
ritrovano; ma con più frequenza vi ricorre il suggestivo
paesaggio di Terracina, in vista del Circeo, con i suoi
canali, le sue paludi, e i suoi mostruosi bufali che
diguazzano nell'acqua, o meriggiano sonnacchiosi nel brago,
o trainano con lento sforzo, in lunghe teorie, i pesanti
massi di travertino. L' intonazione è un po' uniforme; quei
cieli pallidi e come campiti nella perfetta uguaglianza
della tinta, si ripetono forse con soverchia insistenza; il
vero sembra colto con una fedeltà troppo scrupolosa; ma il
disegno è mirabile, e il virtuosismo dell'artista vi
raggiunge a volte tali effetti che si unisce col rimanerne
soggiogati.
Più noto ancora di questi paesaggi è il grande fregio del
Parlamento, se non per altro, per le innumerevoli
riproduzioni onde le sue varie parti furono divulgate nelle
rassegne d'arte e nei periodici illustrati. Qui ne vediamo
alcuni studi; quegli studi che taluni dicono più belli
dell'esecuzione definitiva. Un genialissimo artista milanese
del legno, il Quarti, li ha acquistati per inquadrarli in
non so qual decorazione, ch'egli sta preparando, d'una sala.
E il Quarti è così abile nell'inserire ed ambientar la
pittura entro le sue decorazioni, che certo saprà
utilizzarne opportunamente e degnamente la bellezza.
|
Con interesse non minore si rivedono certe squisite
litografie e certe tele come La Malaria e il
Ritratto di bambina, che ci richiamano ad un periodo
non certo prossimo dell'arte di Sartorio. Ma, insieme con le
silografie della Passione, dove il dramma cristiano
del Calvario trova un'espressione cosi intensa e tragica, e
insieme coi paesaggi del Pasubio e dell'Adamello - una
serie, questa, dei quadri sartoriani di guerra, che non era
inclusa nella mostra del '18 e che ci sembra la più bella di
quel ciclo -, la parte della presente esposizione che
riserba più fresche attrattive ai visitatori è nella sala in
cui Sartorio ha raccolto le impressioni del suo recente
pellegrinaggio in Egitto, in Siria, in Palestina e in
Gralilea. Egli ha visitato quei paesi non solo con
l'interesse del pittore che cerca emozioni nuove, ma con la
curiosità dell'erudito e dell'archeologo, ricercando
sopratutto nell'Oriente mediterraneo così prossimo a noi i
legami di parentela, i vincoli spirituali con l'Occidente
latino, i segni dei contatti diretti che, fino al tardo
Rinascimento, vi mantennero i romani e più ancora per le
opere future, di più vasta mole e di più libera ispirazione,
a cui potranno forse servire un giorno, quando l'artista
vorrà trarre dal suo viaggio, e raccogliere in una sintesi
di grande poesia, le note trascritte in questi quadretti con
l'obbiettività dello studioso.
E sappiamo che il Sartorio è affascinato dal ricordo del suo
soggiorno nelle terre dei profeti e dei califfi, e già
s'apparecchia a ritornarvi, bene armato di tele e di colori,
di tavolozze e di pennelli. |
b.
|
|
|
|
|
|