Pillole d'Arte

    
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(Fonte : Fiorentina Primaverile - 1922)

Silvestro Lega



Il 21 novembre 1895, in una corsia dell'Ospedale di Santa Maria Nuova, a Firenze moriva di cancro allo stomaco un piccolo uomo, ossuto e magro per natura, ma vieppiù smagrito dal male atroce, un ometto smunto, pallido d'un pallor livido. Era giunto costi pochi giorni prima, quasi col rantolo della morte in gola, vestito d'abiti frusti e ripicchiati come un vecchio «travet»: nei suoi piccoli occhi, che dovevano essere stati un tempo ardenti e fieri, ma che apparivano ora come annebbiati da un velo, si leggeva un grande scoramento, una disperazione infinita. . .

Era Silvestro Lega, uno dei più grandi e puri artisti che l'Italia abbia avuto nel secolo scorso e che l'Italia ufficiale, l'Italia dei «vigliacchi» della Carducciana invettiva, lasciava morir cosi come un cane randagio, come un povero vecchio passerotto sotto una tegola, che nessuno lo sa.

Era nato nel 1828 a Modigliana nella Romagna toscana. E tipicamente romagnolo era in quella sua magrezza ossuta e vibrante, tutta nervi, e nel carattere fiero, ardente, generoso, e impennantesi disdegno e d'ira in cospetto dell'imbecillità e della cattiveria umana: quel carattere che in mezzo ai fiorentini scettici, burlevoli e un po' perversi, era come la calamita dei lazzi più sguaiati e delle burle
più pepate. Vestro - cosi lo chiamavano gli amici - si arrabbiava, sbottava in contumelie sanguinose e in personalissime imprecazioni; e quelli ridevano più che mai. Che coloro i quali lo avvicinarono non prendessero mai sul serio, né valutassero giustamente la serietà e l'ardore del suo carattere, e l'arte sua che di quel carattere era l'espressione più genuina: in ciò, forse, consisté il dramma della vita di Silvestro Lega. Direi quasi che fu troppo convinto perchè gli altri si convincessero del suo ingegno e troppo dignitoso e insieme troppo modesto per raccomandarlo altrui.

A Firenze era venuto a ventidue anni, nel 1850, dopo aver fatto la campagna del 1849 in Lombardia, volontario insieme agli studenti dell'Accademia e dell'Università di Pisa e di Siena. Era allora e fu sempre dipoi un fervente mazziniano, legato di devota amicizia nel proprio paese con quel prete liberale e patriota Don Giovanni Verità che nella pineta di Ravenna aveva, salvato la vita a Garibaldi e aveva visto spirare Anita, e del quale il Lega dipinse un ritratto vivacissimo che trovasi ora nella Pinacoteca di Livorno. L'ideale mazziniano e repubblicano si attagliava a meraviglia al suo spirito ottimista, romantico e un po' empirico pur nei procedimenti e nelle idee della propria arte: era come un prolungamento, in cotesto senso, della poesia della propria anima calda e ingenua e trovava perfino una rispondenza nella sua tavolozza generosa, impetuosa, ardita e insofferente d'ogni «fren dell'arte», nella quale la nota dominante era un bel rosso di sangue vivo o di garofano, scempio ma odoroso; nota che egli poneva immancabilmente in ogni suo quadro, come una sua seconda firma, come l'emblema o la lampada votiva, ognora accesa, della sua fede sempremai giovane e ardente.

Era venuto a Firenze per studiar meglio l'arte e si era messo col Pollastrini, il neo-quattrocentista severo e compassato, che insegnava allora all'Accademia di Belle Arti.

«Quando al ritorno della prima esposizione internazionale di Parigi del 1885» - scriveva con la sua solita arguzia Telemaco Signorini in un opuscolo commemorativo del pittore romagnolo - « l'Altamura e il Tivoli portarono fra noi le nuove idee d'arte, che poi generarono la macchia del chiaroscuro, arme d'opposizione all'insegnamento accademico; il Lega, passato allievo di Luigi Mussini, fu avverso a questa rivoluzione artistica perchè ci veniva dalla Francia, da quella nazione che era stato dolente di non aver potuto combattere nel 1849, in Roma, a difesa della Repubblica.

«Ma quando poi coll'arte del Courbet prevalse nelle arti dei popoli di razza latina, la ricerca del realismo, il Lega infierì ancor più, supponendo che dalla Francia ci venisse imposto, col realismo, un qualche re da servire. . .

«Ma poi, visto come questo realismo non fosse altro che lo studio il più sincero della realtà del carattere nella forma, in rapporto all'ambiente luminoso dell'aria aperta, e in opposizione a qualunque concetto e preconcetto accademico, e come fosse, chi lo propugnava in Francia, il più rivoluzionario di tutti gli artisti, un allievo della natura; allora, come aveva lasciata la scuola del Mussini, lasciò quella di Antonio Ciseri della quale faceva parte ed era stato il più strenuo difensore».

«Una volta lanciato in una nuova via», - sono sempre parole del Signorini - «con quel suo carattere impetuoso, tenace e serio, era uomo da non retrocedere, non solo, davanti a nessuno ostacolo nè di transigere mai, come ha fatto fino agli ultimi suoi giorni, colle sue nuove convinzioni artistiche, ma da infonderle anche in altri che non le avessero avute ancora, come fece più tardi con Adolfo Tommasi».

«La sua serietà non gli faceva ammettere gli scherzi di nessun genere, tanto che non ci fu possibile di portarlo quasi mai al nostro caffè Michelangiolo, in quell'agape fraterna di bohemiens, lui, un «buveur d'eau», come chiamava Murger gl'intransigenti; che là non voleva farci il buffone, come sempre ci rimproverava di farci noi ogni sera, colle nostre burle e chiassate».

Da questo ritratto abbozzato con rapida evidenza dall'acuto pittore e scrittore fiorentino emergono specialmente tre tratti che sono le caratteristiche salienti e costanti del temperamento del Lega: l'intensità seria, il candido ingenuo semplicismo, la spontanea sensibilità, se non troppo facile ad accendersi, bruciante con intensità e con entusiasmo una volta accesa.

Fino ad allora il Lega aveva dipinto quadri storici o giù di li, in quella maniera mezzo classica e mezzo romantica, ma peraltro pittoricamente coscienziosa e nutrita, che aveva appreso dal Mussini, allievo dell'Ingres, eppoi dal Ciseri, artista di transizione, irresoluto fra le vecchie tendenze dottrinarie e il nuovo naturalismo. Una Velleda ispirata a Chateaubriand, un Sacro Cuore, un San Tommaso che tocca la piaga a Cristo, un Cristo che comunica Santa Caterina, un Tiziano e Irene di Spilimbergo sono i quadri che il Lega dipinse in quel periodo di tempo che precede la sua emancipazione realistica e «macchiaiola» - quadri dei quali, a mia saputa, si sono smarrite completamente le tracce, seppure essi esistono ancora.

Con la nuova fede artistica coincide nella vita del Lega l'inizio di quella lotta quotidiana, spietata, continua - interrotta da rare e brevi parentesi di benessere e di tranquillità - che se condusse l'artista prematuramente alla tomba e gli impedì di dar vita ad opere di più largo respiro e di elaborata costruzione, accentuò anche quella nota lirica piena di struggimento e d'ansietà, rotta, febbrile, vibrante di una quasi spasmodica sensibilità che è l'accento tipico, inconfondibile dell'arte Leghiana. Accento che fa pensare a non so quale vivo tessuto di gioia e di dolore e che è poi l'emblema, il riflesso fedele dell'entusiasmo dell'artista innamorato dei bei colori della natura, commisto al vibrare doloroso di ogni giorno di ogni ora del suo orgoglio e della sua sensibilità messe a repentaglio con la crudeltà della sorte e con la feroce imbecillità degli uomini: - rosso acceso, bianco fulgido, azzurro e verde smaglianti e grigio torbido, giallo mortificato, rosa languente, nero fosco e disperato. Gioia e dolore: assai dolore nella vita, ma c'era quel rosso, quel
rosso che era la fiamma della sua anima e della sua tavolozza, che lo ripagava, lo racconsolava, di ogni cosa, e tutto già illuminava dentro e fuori, sin negli ultimi tempi della sua vita e della sua arte, quando gli occhi non vedevano più manco per dipingere e condotto dalla mano incerta e tremante il pennello - com'egli soleva dire - «non toccava»...

Nell'Italietta di recente uscita esausta e disorientata dalle lotte per l'indipendenza, divorata per giunta dalla verminaia famelica delle camorre politiche; e più nella borghesucola Firenze del panino ripieno e del diecin di vino, i «Macchiaioli», è noto, eran considerati come fanatici e perdigiorno, che con la scusa della «macchia» volevan nascondere la loro incapacità a ben designare, e se sbraitavano contro gli artisti illustri e rinomati era per invidia e non per altro.

Gli artisti illustri, quelli cui toccava quel tanto o poco di gloria e di fortuna che era possibile allora di raccogliere, erano tutti emeriti cultori della fantocceria storico-accademica, ai quali più tardi si unirono i dipintori da bomboniere e da ventagli. La critica dei giornali quasi tutta in mano a gente digiuna d'arte, ignorante e meschina cooperava ottimamente ad esaltare i lenoni e i lanzichenecchi ed a schiacciare l'ingegno. Le poche voci che si levavano in quel deserto, quella di Diego Martelli, di Adriano Cecioni, di Ferdinando Martini, erano troppo irate e convinte per essere ascoltate.

Tuttavia il Lega, fra il 1870 e il 1880, espose alle migliori mostre italiane: a Genova, a Parma, a Milano, a Firenze : Il canto dello stornello, Le bambine che fanno le signore, L'aspettativa, La passeggiata, Una visita alla balia e, più tardi, Il vestito del bimbo, L'elemosina, La curiosità, Gli sposi novelli, il Mazzini morente: tutti, più o meno, schietti capolavori di colore, d'intimità, di carattere, dei quali poco o punto si accorgevano anche coloro che eran più prossimi a lui e meglio avrebbero dovuti; apprezzarlo. Giacché quelli che erano gli accenti più vivi, le note più spiccate della sua originalità di artista immediato ed emotivo - e che noi ora ammiriamo - rendevano allora perplessi anche gli amici e sembravano loro mancinerie.

Le sue tele che ora gli speculatori si disputano a colpi di biglietti da mille, non gli davano da vivere. Nel 1876, per vedere di poter sbarcare meglio il lunario, in società col Borrani aprì una galleria d'arte in piazza Santa Trinità, raccogliendovi il meglio di ciò che in fatto di pittura si facesse allora in Italia. Fu un buco nell'acqua. Dopo nemmeno un anno dovettero chiuder le bande. E fu un rovescio definitivo per la fortuna del Lega. Divenne burbero, irascibile, più intransigente che mai. Una malattia d'occhi che da qualche tempo lo affliggeva, gli s'aggravò ad un tratto; in breve non vide il vero che per larghe masse, per tonalità generali, non distinguendo più né i dettagli né i toni locali.

Ma la sventura bussando più forte alla sua porta vi deponeva il dono di un nuovo palpito, di un nuovo accento, di un aspetto nuovo della sua arte, più intenso, più lirico, più sintetico e più febbrile. E allora, come per il passato, più che per il passato la sua povertà, la sua solitudine, la sua melanconia, la sua stessa irascibilità furono alleviate e consolate dall'affetto degli amici: la famiglia Batelli prima, poi quella Tommasi dalla quale col suo insegnamento e col suo esempio egli trasse tre pittori: Adolfo, Angiolino e Ludovico, e infine la famiglia Bandini, presso la quale, fra le colline del Gabbro, nell'aspra e accesa campagna livornese, egli visse gli ultimi giorni, fin quasi alla vigilia della morte, e dipinse gli ultimi quadri.

A Pargentina, alle porte di Firenze, nella pace devota degli orti fra l'Affrico e l'Arno, dove gli ortolani chini sulle ortaglie nei vesperi umili e miti sembran pregare; a Bellariva, sulle piaggie dell'Arno fra il riso intermesso dei pioppi d'argento, nella gran luce riflessa dall'acque: al Gabbro, nella terra brulla, consolata solo dall'oro delle messi e dalla porpora delle viti, il povero Vestro godette istanti di gioia intensa e deliziosa nel suo amore inesausto per i colori belli del Creato, cui rispondeva ardentemente il palpito della sua tavolozza fluente, generosa, dalla quale la sua vita migliore sgorgava a fecondare la bellezza del mondo come un fiotto di sangue divino.

E nelle modeste, dimesse eppure agiate villette borghesi che l'ospitavano, pervase insieme all'odor di celliere, di bucato e di spiconardo, di un olezzo di bontà e di amicizia, viveva come di riflesso le dolcezze dell'intimità, della pace, dell'idillio domestico, che poetizzate dalla sua arte e forse dalla sua nostalgia, rivivono in tante delle sue tele. Fu presso quelle famiglie ospitali - che lo consideravano come un parente più ancora che come un amico - che il Lega colse le sembianze di quel caratteristici tipi di donna, la cui femminilità sana, delicata, modestamente borghese, egli comprese e accarezzò con tanta sensibilità e tanta passione coloristica nei suoi ritratti.

Silvestro Lega è il più lirico e il più «moderno» dei Macchiaioli; il più indipendente da ogni influsso intellettuale o tradizionale. Fattori per la sua severità geometrica e il suo stoico stilismo si riallaccia alla grande tradizione toscana ed etrusca; Signorini è ognora pervaso e diviso dalle influenze che il suo intellettualismo criticamente tormentato riceveva dalle tendenze e dalle scuole con le quali la sua curiosità o il caso lo portavano a contatto: Lega è un istinto e una sensibilità poetica-pittorica che ricevuta un primo impulso dal naturalismo e dall'impressionismo francesi e assimilatili con le sue più profonde energie, seguita a vibrare inconsapevolmente - specie di pila elettrica rifornentesi all'infinito nell'atmosfera, ambiente di sempre nuove energie - di sempre nuovi entusiasmi, di sempre nuovo lirismo.

Egli è il pittore per eccellenza, il pittore tipico, in cui la sensualità del colore bello - squisitamente fine o accesamente violento - si trasfigura fino alla spiritualità più alta, e non per via di elaborazioni intellettuali, ma per virtà stessa del suo fuoco interiore. Colorista il cui colore vuole cantare spiegatamente, senza ritegni grafici, senza arginature geometriche, a tavolozza spiegata - quasi direi - il Lega è come que' poeti che, non potendo imprigionare la loro ispirazione in alcuna forma metrica vive, intonano il loro canto soltanto al proprio ritmo interiore.

Sotto cotesto aspetto, la sua nervosità, la sua insofferenza di discipline formali, la sua immediatezza, il suo fremito, la sua ardente e talvolta quasi ostentata anarchia estetica, fanno del Lega un pittore modernissimo, vicino per temperamento agli impressionisti francesi più spontanei e più ispirati: a Pisarro, a Sisley e a Renoir, al quale ultimo somiglia spesso anche per la delimitazione dei larghi e gobbi volumi mediante il solo rapporto dei toni, senz'alcun aiuto di contorni disegnati.

Il mezzo col quale egli ordisce e organizza le tonalità per entro le forme è il chiaroscuro, un chiaroscuro magico, talvolta fosco, talaltra tenue, ma sempre gettato attorno ai toni con una sprezzatura e un impeto magnifici, e che qualche volta ricordano, il Corot più virile e più solido del periodo italiano. Ma in tutte le diverse fasi della sua arte - delle quali non è qui il luogo di discorrere - per la sua bella foga, per la felicità e lo splendore della sua tavolozza, per la scioltezza e l'agilità dei suoi modi è pittore italianissimo: la sua fluidità e trasparenza fa pensare al Correggio, la sensualità e generosità del suo colore al Tiziano, la sua sobria vaghezza tenue, varia, melanconica e gioiosa insieme, a Federigo Baroccio; non meno di loro per natura quotato; solo di loro meno grande perchè vissuto in un'epoca taccagna e ostile all'arte, che gli tarpò le ali a voli più vasti.

Mario Tinti.
 

Opere esposte :
  Collezione del Sig. Enrico Checcucci

1. Sposalizio sull'aia colonica
2. Le lavandaie
3. Ortolana che lega le cipolle
4. Signora al pianoforte
5. Sposini a passeggio
6. Ritratto del Pittore Plinio Nomellinini
7. Ritratto dello Scaltore Boys di Livorno
8. Ritratto del Capo-Musica della Banda del Gabbro
9. La scellerata (ritratto)
10. Ritratto di donna con scialle rosa
11. Ritratto di donna con fiori
12. La lezione

Collezione del Doti. Edoardo Bruno

13. Gabbrigiana
14. Chiesa di Crespina
15. Paese (Gabbro)
16. Paesaggio Alpestre

Proprietà del Sig. Bertini

17. Ritratto del Pittore Francesco Gioli

Collezione del Sig. Alessandro Gorradini

18. La massaia
19. Pagliai al sole
20. Contadini sulla scala
21. La lettura

Collezione del Cav. Fortunato Ciuti

22. Contadina Toscana
23. Uliveto
24. Signorine che lavorano

Proprietà dello Scultore Gemignani Valmore

25. Interno

Collezione del Sig. Giulio Banti

26. L'uncinetto
27. Il bindolo (prima maniera)

Proprietà del Maestro Serbatoli

28. Paese con figura

Collezione del Cav. Alessandro Magnelli

29. Nutrice
30. Signora col bambino
31. Signora che legge

Collezione del Sig. Pasquale Lazzeri

32. La ciociara
33. Testa di donna
34. Paese con figura

Collezione del Conte De Nobili

35. Pagliai al sole
37. Gli sposini
36. Testa di giovanetta
38. Figura in giardino

Collezione della Sig.ra Eleonora Cecchini

39, 40, 41, 42, Ritratti dei fratelli Cecchini

Collezione del Sig. Mario Galli

43. Ritratto in rosa
44, 45, 46, 47, Studi in una cornice
48. La conversazione
49. Gioie materne
50. Contadinelli
51. Casa colonica e contadino
52. All'ombra
53. Strada soleggiata
54. Signora nei campi
55. Ortolane
56. Signora che ricama
57. La Lettura
58. Bambine che fanno le signore
59. Orti fiorentini in primavera (prima maniera)
60. Il Magnane

Proprietà del Comune di Modigliana (Romagna Toscana)

61. Ritratto di Garibaldi
62. Ritratto di Don Giovanni Verità