|
(Fonte : Bollettino d'Arte - Nr III Febbraio-Marzo 1940)
|
Il centenario di Delleani
|
Nato a Pollone presso Biella il 17 gennaio 1840, morto a
Torino il 13 novembre 1908. Lorenzo Delleani, per la sua
gagliardia coloristica e sensualità descrittiva, per la
rapida e persino violenta sintesi delle sue notazioni cromatiche,
è dai critici e dagli storici della pittura
italiana ottocentesca volentieri considerato come il
contrapposto realistico della costante aspirazione
idealizzatrice fontanesiana. Fra Antonio Fontanesi chiuso
nella sua solitudine sentimentale, o "avvolto - come disse
il Cecchi - nella sua sublime, runica tristezza" e Vittorio
Avondo che rispecchia nel suo mite crepuscolarismo l'intimismo
elegiaco proprio della paesistica subalpina, Delleani
rappresenterebbe dunque la corrente veristica che in Piemonte
va da Carlo Pittura a Marco Calderini.
Simili classificazioni non possono essere, si capisce, che
approssimate, e per di più fautrici di equivoci. Tanto è
vero che senza il clima creato in Piemonte da Fontanesi
probabilmente Delleani non avrebbe abbandonato la pittura
storica, di costume e di genere che a quarant'anni l'aveva
reso celebre; mentre poi per un
ventennio egli rimase
insensibile al "verismo"
paesistico della Scuola di Rivara, il borgo canavesano dove Carlo Pittara fra il '60 e
l'80 chiamava a raccolta
i suoi amici di Piemonte, Liguria e Lombardia. Accanto alla
faticosa elaborazione fontanesiana, accanto alla timida stesura avondiana come potè
quindi maturare quest'impeto di pennellata la quale -
scrisse
l'anno scorso A. M. Brizio - "ha una foga, una espressività
modellatrice entro una pasta di colore densa e ricca, che
non ha l'uguale in nessun altro paesista italiano dell'800"
?
Il problema dominante, anzi l'unico problema spirituale su
cui debba sostare lo studioso di Delleani è quello della sua
"conversione" clamorosamente dichiarata col quadro Quies nel
1881, all'Esposizione Nazionale di Milano. Per oltre tre
lustri Delleani, discepolo all'Accademia
Albertina di Torino del meticoloso Carlo Arieti, d'Enrico
Gamba e di Andrea Gastaldi, i due corifei piemontesi della
pittura storico-romantica, aveva dipinto con successo degli assedi
d'Ancona, dei Cristoforo Colombo, dei Torquato Tasso,
dei Corradino di Svevia, dei Sebastiano Veniero, dei Cromwell e
delle Beatrice di Tenda. Eccolo all'improvviso presentarsi
al pubblico con una vasta tela rappresentante il lago di Candia al crepuscolo mentre la luna piena sta sorgendo sulla
bassa pianura canavesana, e, in un chiaroscuro alquanto convenzionale, una contadina riconduce un gregge
all'ovile. E poiché troppo forte è la tentazione di
ridurre concretezze esteriori anche le fluttuazioni segrete del sentimento e dell'intelligenza, naturale che il primo biografo dei
pittori piemontesi ottocenteschi, Alessandro Stella,
affermasse nel '93 che i cinque quadri esposti da Giuseppe
De Nittis all'Esposizione Navale di Torino dell'80 avevano
aperto gli occhi a Delleani, gli avevano indicato la su nuova
via: affermazione poi ripetuta dai susseguenti critici fino
a ieri.
Perchè proprio De Nittis? Da vent'anni Fontanesi esponeva a
Torino le sue elegie pittoriche, con tempestivo tocco, con nuovo e
vivissimo
moto di genialità ridestava e moltiplicava una
nota: che fino allora aveva cantato troppo flebilmente nella
paesistica piemontese, pur essendo la sua più propria: nota
di intimismo patetico e malinconico, di stati d'animo
vagamente idilliaci, di delicate sensazioni coloristiche, di
incantevoli suggestioni d'infinito.
Pure da vent'anni
radunati intorno al Pittara i paesisti della Scuola
di Rivara confermavano con la loro battagliera adesione al
motivo naturalistico l'autenticità di un gusto paesistico
genuinamente piemontese; e ne parlava con ammirazione
Telemaco Signorini, e ne riconosceva l'importanza, nel
panorama del rinnovamento pittorico italiano, Adriano
Cecioni. Tutto ciò che poteva decider Delleani a rinunziare
all'inerte convenzionalismo del quadro storico era già vivo ed operante in Piemonte: e quella sua
rinunzia fu infatti graduale se non
vistosa, come testimoniano alcuni piccoli saggi anteriori a
Quies.
|
Troppo semplicistica è dunque la soluzione data al "caso
Delleani" dal Soldati, l'unico critico che finora ne abbia
acutamente e minuziosamene studiato Io stile. Per Mario Soldati il fatto capitale
della conversione delleaniana si riduce alla raggiunta
possibilità, da parte del pittore, di rinunziare finalmente
al "quadro compiuto" per dipingere invece degli studi di
piccole dimensioni all'aria aperta e nel minor tempo possibile". Una questione di dimensioni e di tempo,
non di soggetto né di contenuto: tale sarebbe il segreto
della conversione. D'altri più complessi elementi conviene
invece tener
conto per spiegarsi il mutamento del "soggetto" delleaniano, d'altre imperiose presenze e preesistenze.
Senza Rivara con le sue suggestive proposte, senza Fontanesi
col suo lirismo trasfiguratone, Delleani non sarebbe
diventato quell'irruente, insaziabile, quasi rapace
scrutatore d'una natura agreste tutta in funzione di luce,
che noi oggi conosciamo ed ammiriamo.
Dalla comparsa di Quies fino alla morte, per Delleani la
natura non ha più che una voce, variamente ed infinitamente
modulata, ma unica. Dozzine di grandi quadri, migliaia di
studi dipinti perchè per lui dipingere è una necessità
strapotente, un bisogno innato ed invincibile che sovrasta
qualsiasi altro fine che non il rapimento di questa foga, di
quest'ebbrezza. Instancabile, d'una rapidità di esecuzione
prodigiosa, quest'uomo che in giovinezza aveva riempito
quaderni di disegni corredati dalle più
minuziose
notazioni, ed atteggiato i suoi manichini in costumi cinquecenteschi con il più
coscienzioso impegno di "composizione", letteralmente si getta sul motivo come
un corsaro
sulla preda.
Per le balze del Biellese, o in val d'Aosta, o in
Liguria, o a Roma, o a Venezia, o nell' 83 in Olanda su
fredde spiagge e brumose distese con l'amico poeta Giovanni
Camerana, egli cerca e interroga la luce. Sulla su
tavoletta i rami dell'albero son segnati con la punta del
lapis che ha scavato un solco nella pasta; le pennellate
vorticose sbavano sulla forma creando rifrangenze luminose,
e quindi nuove ricchezze tonali, e la forma stessa nasce da
questa luce che nel suo rimbalzare continuo determina il
movimento, conferisce alla visione pittorica uno strapotente
senso energetico. Spinto da questa foga, rapito da questa
sensualità coloristica che allinea saggi stupendi accanto a
fiacche abborracciature con una indifferenza a volte
sconcertante, Delleani ha così creato coi suoi cento e cento
studi un'opera folta, frondosa, grondante di energia, non
molto varia pur nell'abbondanza, di una consistenza poetica
che è più nell'intensità magnifica di un difficilmente
superabile dinamismo pittorico, che nell'alta, solenne e meditata realizzazione
di un mondo
lirico interiore, spiritualmente contemplato e poi espresso
a grandi, auguste tappe. Tutto ciò è evidente nella mostra
di centoventi opere che abbiamo scelto ed ordinato nelle
sale
de La Stampa, a Torino, per commemorare, ad iniziativa di
questo giornale, il centenario della nascita di Delleani. Che
il segreto dell'arte sua fosse la concitazionene lo si vede
paragonando i grandi quadri che egli componeva in studio su
bozzetti eseguiti dal vero, e talvolta a distanza d'anni
dalla prima impressione, con le tavolette dipinte in un'ora ed
anche meno sul motivo. Secondo il Soldati. il pregiudizio
dell'esecuzione veristica, finita "quale è possibile nei quadri di grandi
dimensioni", dipinti soltanto "perchè il mestiere e la moda
glielo costringevano", sarebbe stata la causa del venir
meno della potenza espressiva di Delleani nell'altro suo
aspetto di pittore di vaste scene alpestri e di solenni
processioni nella verde conca di Oropa.
La verità è
un'altra; ed è nella impossibilità congenita di Delleani di
durare nell'ispirazione, di superare la rapida ebbrezza
creativa avvolgente lo sforzo convulso della sua stessa
tensione nervosa: fattore quasi fisico che aveva il suo peso sulle capacità
organizzatrici del suo sistema intellettuale. Affermare ch'è
una
questione di "moda" e di "mestiere" l'eseguire in studio
un quadro di grandi dimensioni, è come rifiutare una formidabile tradizione pittorica
europea che va da Tiziano a Goya, da Velasquez
a Manet. E' più semplice riconoscere che il temperamento
di Delleani era negato a simili possibilità. Il suo impegno
sul motivo, "breve, intenso, rabbioso" come ben disse il
Soldati stesso, il suo respiro poetico, che spesso era
erculeo, non durava più di due o tre ore. Tale era il suo limite nel tener desta e viva l'ispirazione, nella
determinazione del soggetto, nel tempo dell'esecuzione: e
non
doveva varcarlo. Se lo
varcava,
a parte il valore illustrativo derivante
da una potente fantasia di composizione, il quadro - non per
trascuratezza, me per debolezza di nerbo spirituale - si
afflosciava come se, per difetto appunto di durevolezza
ispiratrice,
egli non riuscisse (e così era in verità) a coordinarne in unità
stilistica gli sparsi elementi. Di fronte ai grandi maestri
del paesaggio, da Courbet a Fontanesi, questa è senza dubbio una
limitazione, quasi una mancanze di quella classicità che
consiste appunto nella ampiezza, nella continuità
dell'impegno poetico. Ma se si riduce quest'impegno a due
palmi di tavoletta e alla definizione di un momento coloristico, Delleani non teme confronti fra i nostri
paesisti dell'Ottocento.
|
Marziano Bernardi
|
|
|
|
|
|