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(Fonte : Bollettino d'Arte - Maggio-Giugno 1988)
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Giovanni Fattori - Dipinti 1854-1906
Firenze, Palazzo Pitti, 26 Settembre - 31
Dicembre 1987
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"A Firenze la pittura era in quegli anni come un riverbero,
non più dell'arte del Benvenuti, ma di quella del fiorentino
Sabatelli e del fiorentino Bezzuoli ... I giovani, usciti di
fresco dall'Accademia o dalla stanza di un maestro, andavano
cercando qualcosa di non comune; volevano trovare una forma
più rapida della consueta e più efficace per incarnare il
pensiero".
Il clima culturale fiorentino alla metà degli anni
Cinquanta, così rievocato nel 1873 da Camillo Boito sulle
colonne della Rassegna Artistica della Nuova Antologia,
fu certamente percorso da un brivido di curiosità alla
notizia dell'Esposizione Universale di Parigi: si recò a
visitarla, fra gli altri, Serafino da Tivoli che "tornò
furiosamente infervorato del Decamps e degli altri
lumeggiatori francesi", prosegue ancora il Boito e, con
l'entusiasmo dei suoi racconti uniti a quelli del Morelli e
dell'Altamura, contagiò l'auditorio di artisti al punto che
"a Firenze sembrò che tra i giovani non si potesse oramai
più dipingere se non a colpi di sole nell'ombra ".
Furono anni decisivi anche per l'avventura pittorica di
Giovanni Fattori alle cui opere (oltre centoquaranta),
esposte nella Sala Bianca di Palazzo Pitti, un folto
pubblico fiorentino, toscano ma non solo, attirato anche da
un autunno mite, ha tributato l'ovazione. Si tratta della
prima mostra monografica, dopo la retrospettiva allestita in
occasione del centenario della nascita dell'artista
nell'ormai remoto 1925, che Firenze dedica al grande
pittore. Il più recente momento di confronto con l'insieme
delle sue opere risale, invece, al 1953, data della famosa
rassegna tenuta a Livorno in un'atmosfera ancora vibrante di
passione neorealista. In una fase successiva, Fattori sembra
rientrare - almeno dal punto di vista espositivo - nei
ranghi dei Macchiaioli, pur sempre in una posizione di
confronto; mentre il centro promotore delle iniziative di
studio e di esposizione si sposta da Livorno a Roma ed il
1956 è l'anno memorabile che vede i Macchiaioli in mostra
alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna.
Dovranno passare ben venti anni prima della ricca ed
articolata rassegna di Monaco (1976) e della conseguente
nuova edizione tenuta a Firenze, a Forte Belvedere, nella
tarda primavera del medesimo anno dove Fattori figura come
grande comprimario, solitario ma non isolato, dei
Macchiaioli. Un evento reso possibile o almeno preceduto e
accompagnato dalla smagliante e ben nota fioritura di studi
sull'Ottocento toscano, dalla pubblicazione di carteggi e di
documenti, dall'impegno di ricerche sistematiche e che ha
sullo sfondo il riordinamento progressivo della Galleria
d'Arte Moderna di Palazzo Pitti. Si apre la stagione,
quindi, di una fortunata serie di esposizioni all'estero: a
Parigi nel 1978-79, a Lugano e Tokio nel 1979. In tempi a
noi più vicini (1986), sale la temperatura dell'interesse
per i Macchiaioli sulle colline californiane di Los Angeles
e alla Harvard University di Cambridge, un'attenzione che si
organizza secondo una prospettiva storica molto concreta e
sfaccettata, assai evidente anche dal catalogo a cura di
Albert Boime. Firenze ha ora accolto la sfida, ritagliando a
tutto tondo la figura di Giovanni Fattori. Se ne avvertiva
il bisogno. Pur nella costante fortuna del pittore, attiva
fin dai primi decenni del Novecento, interessati al recupero
della tradizione ottocentesca in quanto correttivo alle
lacerazioni prodotte dalle avanguardie, l'immagine del
pittore che si viene costruendo e consegnando nel corso
degli anni Venti, è fortemente limitata e parziale.
Le linee interpretative dei maggiori critici -
opportunamente richiamate da Ettore Spalletti (che è, con
Giuliano Matteucci e Raffaele Monti, uno dei curatori del
catalogo) - trovarono alcuni motivi di convergenza in una
ottica regional-nazionalistica, che enfatizzava il primato
dei Macchiaioli e di Fattori in particolare sulle altre
scuole regionali, e in una sottolineatura forte e ribadita
del loro legame con la grande tradizione fiorentina
trecentesca e quattrocentesca che dispiega i suoi testi in
Santa Croce o a Santa Maria Novella, o nel Convento di San
Marco (Cecchi). Le divergenze più forti, invece, si ebbero
sul terreno del confronto con l'Impressionismo, o meglio
nell'incapacità di sottrarsi alla sirena di quel confronto,
da cui Fattori e gli altri risultavano o penalizzati
(Marangoni e Papini) o esaltati in nome dell'italico fervore
(Ojetti, Tinti), mentre un'accezione solo negativa di
provincialismo (Somarè) spingeva a coprire inferiorità solo
immaginarie (piuttosto che a individuare differenze reali)
con una presunta superiorità. La scelta delle opere,
inoltre, puntava a tollerare di malavoglia la produzione dei
dipinti di storia, secondo quanto sosteneva Ardengo Soffici
nel 1921: " ... per un quadro o due di storia o di leggenda
malamente concepiti e condotti, tutta la sua produzione è
una serie di raffigurazioni dirette della più comune vita
degli uomini, degli animali, degli aspetti più ordinari dei
paesi e delle cose". La resa pittorica - prosegue Soffici -
è "una trascrizione il più possibile esatta di come tutto
ciò si rifletteva nella sua pupilla ..." operando sempre "
indipendentemente da qualsiasi partito preso di carattere
dottrinale o cerebrale ".
Una simile affermazione sembra sminuire - almeno sul piano
delle enunciazioni teoriche - la capacità strutturante della
mediazione formale, in favore di un'equivalenza rischiosa ma
non rara, fra soggetto di ispirazione quotidiana e
"realismo", enfatizzando l'ipotesi di un approccio in presa
diretta, al riparo di filtri culturali. Rispetto a questo
tipo di definizione che sostanzialmente si tramanda negli
anni, un esempio precoce di lettura che affronta il problema
nella sua complessità, proviene dal cinema: Luchino Visconti
con Senso (1954) ci regala, fra l'altro, un'indicazione
validissima sul piano metodologico ed un'intuizione
straordinaria se rapportata al clima critico degli anni '50.
Tutta la lunga e indimenticabile sequenza della battaglia di
Custoza, dall'attesa fino ai combattimenti, con la spulatura
del grano che continua a svolgersi in margine alla
battaglia, non è costruita alla "maniera di Fattori", e dei
suoi dipinti di storia a cominciare da Il campo italiano
dopo la battaglia di Magenta, è qualcosa di più:
presuppone ed implica un'interpretazione formale che è
adesione e scelta critica di narrare la storia da
un'angolatura "privata", distante sia dal pathos
della generazione precedente il '48, sia dalla retorica
illustrativa delle celebrazioni ufficiali. È
l'individuazione di un filtro narrativo che non espone la
storia in senso eroico, universale ed astratto, bensì la
scompone e la ricompone nei suoi elementi concreti, nelle
conseguenze immediate, (fumo, polvere, ferite) usando un
taglio compositivo non a "fuoco centrale" ma prevalentemente
laterale o trasversale. Visconti, mi sembra, assume quelle
immagini come modello interpretativo e non tanto come
traliccio iconografico, usandole per esprimere,
dall'interno, situazioni e sensibilità individuali e
sociali, ben sapendo che nello specifico si trattava della
forma che meglio corrispondeva ai sensi della moderata e
costruttiva società del decennio fra il 1860 e il 1870.
La critica contemporanea ha chiarito da tempo la necessità
di guardare agli anni di formazione e di esordio di Fattori
con sguardo più attento alle relazioni ed ai processi di
evoluzione formale: modernità dei Macchiaioli e di Fattori è
la scelta del "tempo lungo" dell'analisi positiva, assunta
come metodo e come strumento di dominio otticamente lucido
sulla realtà, ma senza pretesa di sistema, da cui discende
l'amore per il frammento. Due voci "fuori campo" possono
risultare illuminanti pur rimanendo sostanzialmente estranee
sia alla cultura sia alla vantata semplicità culturale del
maestro. Esse esplicitano, comunque, idee ed interrogativi
che inquietavano l'Europa producendo fiori diversi; sono
pollini che si diffondono anche a prescindere dalla
conoscenza filologica di questo o quel volume: se già
Baudelaire aveva messo a fuoco e denunciato
l'impraticabilità delle soluzioni proposte dai romantici,
Flaubert rappresenta, da parte sua, nella follia
classificatoria di Bouvard e Pécuchet, la vanità di ogni
descrizione sistematica. Seppure formulato in termini
differenti e risolto con esiti che variano a seconda "dello
sparpagliarsi moderno delle culture" (Boito), il problema si
colloca, credo, entro tali confini. È, inoltre, conquista
della storiografia più recente aver individuato che il
movimento verista si declina con accenti intenzionalmente
ispirati alle realtà locali, un'ottica critica che oggi si
esprime in maniera profondamente mutata, però, rispetto alla
forzatura imposta dalle letture del fenomeno effettuate
negli anni Trenta. Solo ora, perciò, siamo in grado di
recuperare il senso storico dell'affettuosa definizione dei
Macchiaioli data da Roberto Longhi nel 1949, "adorabili
provinciali", senza avvertirvi la minaccia di un atto
denigratorio.
Se ripiegamento c'è e, nel caso specifico, scontroso più che
polemico, verso una toscanità riaffermata nei confronti
dell'invadenza piemontese, esso si fa concentrazione visiva
quasi esclusiva su vie e paesi assolati e silenziosi, su
riti agresti fermati nei loro momenti più solenni oppure
osservazione di figure in interni e in esterni la cui
"naturalezza" è ottenuta tramite un'attenta scomposizione in
piani cromatici che esplora la carica espressiva del colore,
immobilizza e verifica le cose. Un esercizio di stile su un
mondo che ormai si conosce come non più eroico e sublime,
destinato quindi a scomparire come stava scomparendo, per
una legge di odierna funzionalità, la cerchia duecentesca
delle mura di Firenze.
La città che si offriva alle esperienze del giovane Fattori
non era certamente una terra di "vinti". I "moderati"
toscani - almeno fino al 1870 - sono senz'altro dei
vincitori sul piano politico ed economico; l'ambiente
artistico non è inerte: se l'Accademia, svuotata di funzioni
e di senso restava immobile a celebrare i suoi rituali, le
scuole private di Luigi Mussini e Franz Adolph von Sturler,
quella di Enrico Pollastrini, quella di Antonio Ciseri
insieme alla scuola di paesaggio tenuta dallo slovacco
Karoly funzionavano da efficaci alternative, mentre la
Promotrice, fondata dal 1845, avviava nuovi meccanismi di
mercato "misto". Le notizie delle nuove ricerche formali vi
giungevano anche attraverso i pensionati all'Accademia di
Francia con il "Prix-de-Rome"; le polemiche sul "vero
naturale" avevano scosso e contribuito a tenere desto
l'interesse anche delle numerose e ricche colonie di
stranieri, acquirenti reali e potenziali. A partire dal 1856
la villa Demidov a San Donato aveva aperto i suoi cancelli a
visitatori scelti, li gli artisti avevano a disposizione
un'importante ed aggiornata rassegna di pittura francese
"moderna": vi figuravano, infatti, opere di Delaroche,
Delacroix, Scheffer, Isabey, Vernet, Ingres, Bonington,
Calarne, Fremy e Troyon e Decamps. Mentre al Caffè
Michelangelo si consumavano gli ardori progressisti e i
fuochi polemici, e non senza un sospetto di compiacimenti e
"bravate" letterarie (come ha opportunamente avvertito Carlo
Del Bravo fin dal 1975), i protagonisti del nuovo governo
con Bettino Ricasoli alla presidenza, non trascuravano
davvero l'intervento nella politica culturale della città
sia con atti di valorizzazione del patrimonio "locale" sia
con forti impegni di promozione quali il Concorso Ricasoli
del 1859 e la Mostra Nazionale del 1861. Fra il 1853 e il
1854, è opportuno ricordarlo, si affermavano a Firenze
le prime società specializzate nella riproduzione di vedute
dei monumenti italiani, di fotografie di dipinti e poi di
ritratti e vedute di paesi già segnati dai mutamenti imposti
dall'industrialismo, quali i ben noti stabilimenti di Pietro
Semplicini, di Paladini e Dell'Acqua fino alla più celebre e
affermata ditta fondata da Leopoldo Alinari (1854).
Avendo ben presenti questi poli di riferimento generale e
facendo tesoro dei recentissimi lavori che hanno fornito
abbondanti materiali documentari ed iconografici proprio
riguardo all'argomento, Ettore Spalletti, nel saggio in
catalogo, punta con decisione a illuminare di nuove ipotesi
critiche un intreccio decisivo: la formazione e i primi anni
dell'attività di Giovanni Fattori. Nonostante l'attuale
dispersione dei dipinti di storia da lui eseguiti a partire
dal 1855, rimane, comunque, documentato, uno spiccato
interesse dell'artista per il rinnovamento del quadro di
storia, un tema, del resto, prioritario nell'ordine del
giorno degli interessi artistici del momento. I quadri
superstiti dimostrano, a parere dello Spalletti, "come egli
tendesse a scartare le soluzioni proposte da Domenico
Morelli" e basate su un rafforzamento sia del modellato
chiaroscurale sia della frequenza e della precisione degli
attributi e accessori utili alla "verosimiglianza" storica e
di costumi, sulla scorta di Paul Delaroche e dei
tardo-romantici francesi. In un percorso che non conosce
"conversioni" improvvise (in questo senso l'autore
ridimensiona la portata dell'incontro con Nino Costa,
riallacciandosi ad una linea di orientamento critico
proposta nella sua traccia larga già da Emilio Cecchi nel
1925), ma si evolve secondo una "lenta ma costante
crescita". In conseguenza non esiste una rottura dirompente
fra la Maria Stuarda al Campo di Crookstone (1861),
Il campo italiano dopo la battaglia di Magenta
(1862), ma la continuità di un processo evolutivo. Il punto
di partenza di tale traiettoria viene individuato nell'area
purista influenzata da Luigi Mussini, caposcuola dell' "ingrismo"
italiano e dai suoi allievi: Amos Cassioli e Angiolo
Visconti, arricchiti da esperienze e contatti aggiornati con
i pensionnaires francesi: Edgar Degas, Gustave
Moreau e Elie Delaunay. Risulta quindi toccato - si può
aggiungere - un punto importante e suscettibile di sviluppi:
l'impulso potente che parte e si propaga dalla metafora
cristallina, dal lucente intarsio costruito dal grande
maestro della tradizione raffaellesca, Jean Auguste
Dominique Ingres, appunto, di cui l'Esposizione Universale
del 1855 celebrava la retrospettiva accanto al sorprendente
esordio del giovane Courbet; impulso che si muove e
s'indirizza verso le esplorazioni più ardite sui valori più
astratti della forma. Il dilemma fra il rigore
dell'astrazione purista e la ricchezza di dati fornita da un
esercizio naturalista all'osservazione sensibile che aveva
affaticato la cultura pittorica italiana negli anni intorno
al 1850, nelle cosiddette "tavolette militari" si scioglie e
si organizza in narrazione scandita e sintetica, regolata
sul sondaggio del potenziale espressivo del colore, cercato
e riscoperto nel suo rapporto con la luce.
La mostra ed il catalogo proseguono, poi, illustrando il
solare decennio 1860-1870: il sodalizio di Castiglioncello,
l'apologia del paesaggio livornese fra il 1864 e il 1868, i
ritratti, i concorsi, i premi, le onorificenze, la cattedra
alla Accademia fiorentina nel 1870. Il contributo di
Giuliano Matteucci mira ad enucleare "l'originalità del
ruolo di Fattori" ai fini dell'affermazione di "un realismo
moderno" e ad individuare "come l'artista, pur muovendo da
una situazione che era all'origine generale, operò
successivamente "un insieme di scelte isolate che lo
portavano a percorrere una strada del tutto autonoma".
L'affermazione pubblica, nel frattempo, è interamente dovuta
ai dipinti che elaborano il tema militare, da Il campo
italiano dopo la battaglia di Magenta già ricordato,
alla Carica di cavalleria a Montebello
(Firenze, Palazzo Pitti, Galleria d'Arte Moderna), al
complesso ed impegnativo Assalto alla Madonna della
Scoperta', acquistato nel 1871 dall'Amministrazione
Comunale di Livorno anche grazie all'interessamento del
gruppo di industriali livornesi sostenitori dell'artista:
Giovanni Santofonte, Gustavo e Pasquale Corridi e Adriano
Lemmi, e sono proprio queste tele, tutte di dimensioni
ragguardevoli, a non poter essere esposte per ragioni di
opportunità conservativa. È anche il momento della
otonda di Palmieri, dipinto allora premiato alla mostra
della Società d'Incoraggiamento, ma che destò scalpore
poiché "privo di soggetto che interessi". L'assenza di una
struttura narrativa è oggi vista da Giuliano Matteucci come
"conseguenza di un atteggiamento che portava a vedere nello
spettacolo quotidiano il "motivo" necessario e sufficiente
perché un'opera di pittura abbia ragione d'essere". In
maniera analoga il contenuto e la narrazione si rarefanno ne
Le Macchiaiole (1865), "l'equivalente italiano di
Puvis, sia pure in via diversa dall'art pour l'art
(Del Bravo, 1976).
La lettura della vitalità della stagione ultima di Giovanni
Fattori è affidata alla profonda conoscenza di uno
specialista come Raffaele Monti. Lo studioso affronta, fra
molte difficoltà di catalogazione, e ricostruisce gli ultimi
trent'anni di produzione accennando anche alla crisi che
turbava la società artistica italiana, sempre più
acquiescente alle poetiche dei Salons parigini; "per esse -
come scrive il Monti - il caratteristico regionale, la
puntigliosa descrizione delle tipologie e dei comportamenti
specifici veniva a sostituire i contenuti esemplari e
celebrativi dei quadri di storia o costume 'antico' di cui
l'odiatissimo Meissonnier andava rinnovando i fasti".
Fattori risponde con la ricerca di un rapporto con il
"reale" di significato più complesso e in presa più diretta
e con una vera e propria dedizione al quadro militare ove
"rimuove gli schemi convenzionali in trazioni violente eppur
accorate". In vedetta del 1872 (Valdagno,
collezione Marzotto) e Riposo (Barrocci romani')
del 1873 circa (Firenze, Palazzo Pitti, Galleria d'Arte
Moderna) segnano l'apice di questa fase in cui "il nodo
formale si tende quasi sino all'iperbole depurando lo schema
prospettico e trasformandolo in uno spazio necessario, entro
cui la rappresentazione concentra il massimo del proprio
potenziale emotivo ". In quegli anni maturava anche un
diverso rapporto con Diego Martelli, lo scioglimento del
gruppo di Castiglioncello, le crisi, la necessità di
misurarsi con i giovani Ferroni, Gioli e Cannicci, l'esodo
dei parigini De Nittis, Boldini e Zandomeneghi; si accendono
le prime, rabbiose e difensive reazioni nei confronti degli
Impressionisti e dei primi prodotti dal vivo che finalmente
se ne vedevano (i due Pissarro della collezione Martelli ora
alla Galleria d'Arte Moderna di Palazzo Pitti). Ma, avverte
ancora Raffaele Monti, se "si vuol cominciare a comprendere
esattamente la matura e tarda attività fattoriana siamo
convinti che non si debba mai dimenticare questa dialettica
tra concentrazione formale sul 'motivo' e volontà di
sviluppare la medesima in uno spazio che possa contenerne
anche uno sviluppo temporale capace di scorciare il rapporto
con lo spettatore ed immetterlo in un tempo attivo
necessario a esaltarne la coscienza ".
Un filo corre, inoltre, tra le opere della Galleria d'Arte
Moderna di Palazzo Pitti e quelle in mostra, a ritrovare il
" empo di Giovanni Fattori". Il percorso, ideato e
illustrato da Carlo Sisi, ha condotto verso le opere che
esemplificano - tramite una scelta molto rappresentativa dei
dipinti delle collezioni del secondo Ottocento lì conservate
- in parallelo alla produzione fattoriana, lo svolgimento
del tema storico-allegorico fra Restaurazione e
Risorgimento, le ricerche sul colore d'influenza morelliana,
le tendenze nella pittura di paesaggio, il collezionismo di
Diego Martelli e di Cristiano Banti, e il raffronto con le
forti presenze, nella cultura fiorentina degli ultimi due
decenni dell'800, di influenze artistiche europee,
dall'estetismo rinascimentale dei Preraffaelliti inglesi
all'ellenismo romantico della scuola tedesca, "componenti
che mettono definitivamente in crisi" i principi e le forme
del realismo risorgimentale. Lo stretto collegamento
esistente fra la mostra e la Galleria d'Arte Moderna di
Palazzo' Pitti è stato ulteriormente ribadito dalla
presentazione al pubblico dei risultati di un'indagine
scientifica sulla tecnica pittorica di Giovanni Fattori
svolta sottoponendo a esame reflettografico I.R. tutti i
numerosi dipinti appartenenti alle collezioni di Galleria.
La campagna è stata attuata in collaborazione con il
prestigioso Istituto Nazionale di Ottica di Firenze e la
relazione pubblicata in catalogo da Diane Kunzelman ed Ezio
Buzzagili riassume i dati provenienti dall'analisi della
tecnica esecutiva (e quindi del disegno sottostante) e
individua una costante tendenza alla semplificazione
compositiva effettuata tramite la riduzione degli elementi
rappresentati, sottolineando e confermando, per esempio nel
caso della celeberrima tavoletta della Rotonda di
Palmieri, "la genesi studiata e ponderata di un'opera
che a prima vista potrebbe anche sembrare un'immediata
'impressione dal vero' tradotta in pittura".
Ad integrare l'attività del pittore sono state esposte ed
accuratamente ristudiate le acqueforti incise dall'artista e
donate nel 1958 al Gabinetto Disegni e Stampe annesso al
dipartimento di Storia delle Arti dell'Università di Pisa.
Un episodio significativo che propone al pubblico il corpus
fattoriano raccolto da Sebastiano Timpanaro, il noto
letterato artista che, come afferma Donata Levi nel saggio
in catalogo, coltivò un tipo di collezionismo "schivo,
appartato, raffinato, intellettuale, guidato da un filo
quasi invisibile" indirizzato su quel particolare oggetto o
sulla base anche del richiamo all'ideale risorgimentale che
in lui "si colorava di una vena più libertaria". Il saggio
di Flavio Fergonzi ricostruisce puntualmente la fortuna
primonovecentesca di disegni ed incisioni "segnalando",
attraverso "lo specchio privilegiato dell'attività grafica",
come il primo scatto verso una prospettiva interpretativa
del pittore in direzione formalista anziché
narrativa-illustrativa, sia avvenuto collocando Fattori
entro una linea costruttiva e compositiva
Giotto-Masaccio-Piero della Francesca e recuperando così,
nel disegno, il criterio ordinatore. Il nuovo interesse per
la grafica che si esprime nella mostra centenaria del 1925
nella sala interamente dedicata alle centosettantatre
acqueforti della collezione Rosselli, matura nel corso degli
anni Trenta, caricandosi di accenti nazionalistici in una
serie di "disperati tentativi" per rivendicare il primato
fattoriano su Cézanne, mantenendo nel medesimo tempo la
capacità di cogliere l'autonomia e la novità del linguaggio
grafico. Ad esse saranno particolarmente sensibili gli
artisti, Viani, ad esempio. Nel corso degli anni Trenta, con
Luigi Bartolini, l'attenzione critica si sposta
definitivamente sulle qualità tecniche e stilistiche
dell'incisione fattoriana "in aperta polemica contro la
sterilità delle ideologie artistiche contemporanee", in un
confronto che ne proclama la vittoria.
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Maria Cecilia Mazzi |
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