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(Fonte : Bollettino d'Arte - Nr IV Aprile-Maggio 1940)
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Antonio Mancini alla "Gazzetta del Popolo"
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Per la seconda volta nel giro di non moltissimi anni Mancini
ritorna a Torino con un gruppo scelto di opere sufficienti
non soltanto a richiamare a tutti i cultori d'arte i
caratteri di quella sua pittura che apparve tra le più
significative testimonianze del gusto italiano a cavallo
degli ultimi due secoli, e ad ogni modo fra quelle più sane
e impostate seriamente su fatti pittorici e poetici, poetici
perchè pittorici, al di là di ogni evasione letteraria e
polemica; ma anche a favorire una non inopportuna
riflessione sui valori ed i limiti della sua personalità. Se
altra volta la scelta presentata dalla "Fontanesi" ebbe
carattere antologico e critico, volta a discriminare in
Mancini come in altri ciò che è vivo nella sua pittura da
ciò che è irrimediabilmente morto, quest'ultima ha piuttosto
carattere panoramico (per quanto è possibile per un artista
tanto quantitativamente fecondo) ed anche implicitamente
polemico contro ogni troppo baldanzoso tentativo di voler
fare della nostra cultura e della più recente esperienza
artistica una misura per valutare Mancini: insomma se altra
volta lo si chiamava al tribunale del gusto scaltrito ed
affinato dalle esperienze cosiddette "di avanguardia", oggi,
qui, si vorrebbe piuttosto invitare il pubblico a giudicare
quelle stesse esperienze al metro rigoroso che si suppone
indotto dalla contemplazione di questi quadri così
schiettamente remoti da ogni nostra vivente e tormentosa
preoccupazione artistica.
Perchè una cosa rimane ad ogni modo chiara, ed è che se la
pittura di Mancini poté godere per intrinseca virtù di
realizzazioni, come per ragioni contingenti, le simpatie di
quanti contro ogni ciarlataneria neoclassica combatterono in
nome del "colore" in cui si ravvisò la categoria
fondamentale del gusto moderno, da Giorgione in qua, essa
appare d'altra parte ormai come talmente legata alle
contingenze di gusto, che il "colore" atteggiarono in un ben
definito momento della pittura del secolo scorso, che ogni
invito ad un ripensamento della sua arte non può non suonare
come sprone ad un rigoroso bilancio di ciò che nella sua
pittura è veramente arte, superando ogni pratica
contingenza, o alla constatazione che nasce dall'esigenza
opposta: quella dell'artista che nel pittore studiato cerca
stimolo od incoraggiamento alla formazione della personalità
propria o dell'uomo di gusto che intende trarne auspicii di
quelle che siano per essere le più vitali determinazioni
dell'arte che intorno a noi viene pur facendosi di giorno in
giorno. Ma di fronte a queste esigenze bisogna pur
confessare che, diversamente da quanto per avventura credano
gli organizzatori della mostra, Mancini non ci dice e non
può dirci un bel nulla. Ricordiamo una cena con De Chirico,
ove il pittore delle muse a testa d'uovo non si cibava
soltanto con la "metafisica" ripugnanza per ogni troppo
sanguigno e sensuoso cibo testimoniata dalle pagine di
Hebdomeros, ma irritava l'ospite meridionale applicando lo
stesso metro alla pittura ed anteponendo agli entusiasmi di
questi per il colore di Mancini il narrare in ben composte
cadenze decorative di Boeklin.
Non vogliamo dire che la giovanile compiacenza di esser
seduti al tavolo del pittore, per noi quasi mitico, che ci
rese allora pronti a temerariamente sottoscrivere ogni suo,
pur discutibile come questo, giudizio, ci tenga ancora; ma
confessiamo che il sospetto che in quel giudizio ci fosse
qualche cosa, che solo aspettava di esser meglio espresso
per essere vero, non ce lo siamo mai potuto togliere di
dosso, e che questa mostra, come certe imprudenze verbali
dei suoi presentatori, ci sembrano fatte apposta per farcelo
raffiorare esigente e prepotente? Certo si è che se molti
sono in questa esposizione i quadri che possono interessare
nella più rigorosa sede critica, altri, e basti per tutti
quella Verità falsa sin nel sesso del modello che vi
posò, non possono non ricordare a chi non sia malato di
inguaribile ottimismo per tutto ciò che non è
"d'avanguardia" che sono stati dipinti al tempo o giù di li,
del ballo Excelsior, della Scena Illustrata,
da chi non seppe da quel suo tempo distaccarsi in modo da
farne l'ironia o l'epopea. E lo schema disegnativo che
rimane, irrisolto nel colore, in fondo a ciascuno di questi
quadri, ciò che li limita irrimediabilmente. Questo fondo
rimane accademico (fotografico, ci diceva uno dei più
notevoli pittori d'oggi) e la riprova è nei disegni, in
quegli studi di nudo senza nessun interesse, nessuno stimolo
che non sia di piatto desiderio di esercitarsi negli schemi
di un realismo tutto illustrativo ed aneddotico.
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Ora vi è davvero qualche cosa d'altro sotto il gioco pesante
e sfacciato della materia colorata? Riducete di dimensioni
queste composizioni, trasformatele in piccole tricromie ed
avrete delle semplici cartoline. Impressionismo, veneziani,
spagnoli? evvia. Tiziano, Velasquez, Manet? Ma ciascuno di
questi ha un suo colore che è una cosa sola con il suo
sentimento, colla sua visione della vita, con il suo
disegno, con il suo comporre. Il mondo provincialmente
classico e sontuosamente sensuale del primo, la prodigiosa
evocazione di caratteri umani del secondo, la poesia
pungente della femminilità e dei salotti della borghesia
parigina dell'ultimo, quale riscontro trovano in questa
pittura? Colore ? Perchè vi sono delle croste di colori
spesse un dito ? Dopo che tanto ci è stata rimproverata la
visibilità pura, la critica a base di soli dati stilistici,
il disprezzo del sentimento e del contenuto, dovremo proprio
essere noi a ricordare che la forma pura non ha nulla a che
vedere colla forma astratta, che un pittore non realizza
arte se non attua un proprio mondo fantastico criticamente
definibile anche per via di sentimento ? Non bastano i
colori spessi e vivaci, la pennellata spavalda a far del
colore se per colore non s'intende un astratto modo
retorico, ma un concreto mondo poetico. Il colore dei
veneziani e degli impressionisti è il loro modo di
confessarsi: quello di Mancini potrebbe portare in epigrafe
il verso del Marino : "E del poeta in fin la meraviglia".
E che meraviglia ad uso di pubblico popolaresco e amante dei
sapori schietti ed elementari! Il che del resto lo rende
simpatico. Si salva il nucleo poetico originario del Mancini
dalla banalità per una certa forza nativa che nobilita gli
elementi del quadro. In principio questo nucleo deve aver
dominato nella persona dell'artista, limitando la sua febbre
di abbandonarsi alla gioia del colore al gusto della
pennellata e della pasta, con una ebbrezza che rivela da
lungi il suo carattere pratico e perciò anti-artistico.
Eppure quanto dono di grazia fu offerto al Mancini giovane e
non soltanto nella rutilante logorrea del colore, ma in un
senso delicato e comprensivo di umanità, di quella umanità
che ferma incancellabilmente nella nostra memoria al segno
del suo nome un tipo, una poesia: quella di una certa
infanzia che sembra per lui essersi concretata nel volto
smunto e signorile, nella cenciosità, facile a travestire in
panni di principi, di un modello che riconosciamo come una
delle figure di riferimento del suo mondo poetico in molti
quadri del primo periodo, sia che egli se ne offra
l'immagine camuffata con commovente signorilità di
portamento nei neri a pretese velasqueziane dei velluti di
cui si veste il fanciullo nel notevolissimo Duello
del Museo Civico di Torino, sia che quel suo viso affilato
voglia dare una giustificazione letteraria al titolo di
altri quadri (e ne ricordiamo uno bellissimo per certa
mirabile natura morta di libri che basta a dimostrare cosa
avrebbero potuto fare i nostri pittori dell'Ottocento se
avessero posseduta quella chiave segreta di ogni ragion
poetica che è il senso di ciò che ciascuno di noi è in grado
di dare, non diremo nella misura prodigiosa di un Manet o di
un Renoir, ma semplicemente in quella che oggi ci consola in
un De Pisis), oppure che si traduce in tanta sicurezza ed
insieme discrezione di pennellata in questo Scolaretto
addormentato sui libri, forse a sognare come sia possibile
tradurre in sapienza di pittura esercitata al rapinoso
colore che si stempera nelle sensuose voluttà della pasta
all'olio, certa curiosità di profili e di profilati
sentimenti che altra volta fu linea nel Quattrocento.
E i manifesti nel fondo dei Piccoli saltimbanchi
(Tav. CXII) che meraviglia, anche senza pensare a tutto ciò
che quelle scritte vogliono che inevitabilmente pensi chi si
sia abituato ad amarle in tutt'altre cose, magari nei primi
Utrillo! Quella era, nella descrizione signorile e trepida
del segno, nell'elezione della curiosità per l'insospettata
eleganza di quelle scritte, pittura e colore, questo
davvero, perchè discreto colore!... Tanto più poeticamente
vitale, quanto più atterrato nel suo orgoglio di materia,
quanto più distillato e assottigliato e mortificato in
quella fiaba di un carattere, di una fisionomia, di un tipo,
di una curiosità umana e sottile che è il vero senso poetico
di Mancini, quello che riscatta la sua truculenza
coloristica nella melanconica domanda (così meridionalmente
retorica, di quella retorica che dalle tradizioni
gioachimite e di una "antiquissima" sapienza italica da
logge esoteriche e da fraterie eretiche, ha finito col
nutrire se non la poesia, la teatralità pirandelliana)
intorno all'opportunità di adornare di una feluca la testa
del padre, di un turbante scarlatto la propria in un
Autoritratto (Tav. CXII, fig. 2), che è del resto una
delle più belle pitture della mostra, e che ci spiega non
soltanto come Mancini possa sentirsi tentato di trarre da
una qualunque oleografia l'immagine del Re Imperatore,
ma come possa giunger in essa a dipingere una serie di
medaglie sul petto che in mezzo alla brutta pittura del
resto del quadro possono sembrare belle come un lembo di De
Pisis caduto in un diverso e stanco quadro; come infine, di
tutti questi quadri (facendo grazia dei pre-surrealisti
dipinti alla Irolli come Si vende, un quadro che non
sarebbe probabilmente mai stato esposto se un recente quadro
di I. Cremona non avesse a Torino reso emblematico il motivo
del "quadro nel quadro" ed un altro dipinto alla stessa
stregua che passa, Dio lo perdoni, per un capolavoro)
l'immagine di certo lampeggiar di volti chiari sul turbinoso
scuro del fondo in un drammatico e personale determinarsi,
nel disfacimento coloristico della materia di un fantasma di
fisionomia in cui si ripresenta, divenuta apparizione,
l'umanità interrogativa e malata dei primi quadri,
riuscendo, malgrado tutto, a fare di quel colore indiscreto
e violento, poesia.
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A. G.
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