|
(Fonte : Bollettino d'Arte - 1958 Anno XLIII Numero IV)
|
|
La mostra di Segantini
|
Gli anni di questo dopoguerra hanno già visto parecchie
rievocazioni dell'opera e della personalità di
Giovanni Segantini: una mostra commemorativa a St. Moritz
nel 1949; la presenza di un gruppo di quattro opere nella
Biennale del 1942 (sezione dedicata al divisionismo) e di
un'opera di prim'ordine (la Ragazza che fa la calza, del Kunsthaus di Zurigo) nella mostra dei pittori italiani del
secondo Ottocento a Roma (1952); sette opere importanti
nella mostra dei pittori lombardi del secondo Ottocento
(Como, 1954); una mostra commemorativa nel Kunstmuseum di S.
Gallo, nel 1956; e infine, ora, questa di Arco, aperta tra i
primi di luglio e i primi di settembre del corrente 1958,
che ha voluto essere antologica e limitata a poco più che
una trentina di opere, tra dipinti e disegni. Non si può
dire dunque che Segantini sia un dimenticato, nel quadro
della vita artistico-culturale contemporanea. Nemmeno si
può dire che la sua opera non eserciti tuttora una
considerevole suggestione, a giudicare almeno dalla fila
interminabile (di villeggianti, ma anche di valligiani) che
attendeva il suo turno d'ingresso alla mostra nel palazzotto
dei Marchetti in Arco, allorché mi sono recato a vederla, e
a giudicare infine dall'interesse che mi assicurava tuttora
ben vivo nel suo paese il pittore Manfreda di Innsbruck,
incontrato da me per via mentre appositamente si recava ad
Arco per vedere le opere (molte a lui già ben note) colà
esposte. Ciò non significa naturalmente che la pittura di
Segantini sia stata proprio capita, e, mentre occorre
rendere atto agli ordinatori della mostra di Arco (il cav.
Giulio de Carli ha il maggior merito dell'ordinamento e ha
scritto la nota introduttiva del catalogo) di aver assolto
con scrupolosa coscienza il compito di rappresentare tutte
le varie "fasi" dell'attività del Segantini, occorre anche
dire che sia la mostra che la introduzione al catalogo hanno
continuato a non intendere - almeno così a me pare - alcuni
aspetti importanti dell'opera di Segantini. Non il senso
acuto, anche se talvolta letterario, del colore, e la
scrittura più intima, così fitta e quasi caparbia, del
pennelleggiare di Segantini, perchè altrimenti non si
sarebbe esposto, perlomeno in una mostra antologica, un
quadro invadente e sordo come il Paesaggio d'alta montagna (propr. privata) dipinto con troppo esatta e sbiancata
freddezza per non lasciare perplessi. Non l'intellettualismo
paganeggiante e sensuale, e al tempo stesso il suo vago
umanitarismo e socialismo, perchè altrimenti
non si sarebbe dimenticata l'attenzione del primo Segantini
per l'olandese Mauve, maestro di Van Gogh, ne si sarebbero
avallati o ventilati precorrimenti nei confronti di Van Gogh
o Gauguin, che non esistono, perchè Le due madri di
Segantini, che pure si dice influissero nel determinare la
Secessione viennese nell'esposizione del 1906, sono, è vero,
del 1889, ma non hanno alcun sentore del linearismo ritorto
e drammatico (ma già sulla soglia dell' "Art Nouveau")
della Notte stellata di Van Gogh, che è dello stesso
anno (Metropolitan Museum di New York), e tanto meno dei
contemporanei esperimenti sintetisti di Gauguin.
Se sono da respingere simili eventuali patenti di priorità
che si volessero annettere alla pittura segantiniana, è
tuttavia certo - e bisognerà proprio per questo
sottolinearlo convenientemente - che Segantini si inserì
prontamente nella corrente di idee e di forme che investì
tutta l'Europa e l'America tra il 1889 e il 1909. Egli
infatti non solo manifestava ideali da preraffaellita e da
Art Nouveau quando vagheggiava un "convito" di artisti,
una specie di cenobio dove "si troveranno uniti artisti di
ogni età, che avranno abbandonato famiglia e ricchezze per
consacrare la loro vita al culto della bellezza e d'ogni
virtù dello spirito", ma anche quando descriveva (e si
avvicinava così alquanto alle idee di W. Morris) il campo di
attività dei confratelli: "Dall'abitazione privata agli
edifici comunali e ai pubblici ritrovi, dal mobile al
cucchiaio, dall'affresco figurativo al semplice bordo
decorativo, dal monumento statuario al semplice capitello,
dal vetro al ferro, tutti i metalli, tutti i legni essi
dovranno modellare, incidere; in cambio del loro lavoro gli
uomini daranno al convito il necessario per vivere e
vestirsi. Il primo maestro del convito mangerà alla medesima
mensa dell'ultimo allievo, col tempo vi sarà gara di santa
emulazione" (1).
Segantini scriveva queste cose (e intanto faceva egli stesso
esperimenti di applicazioni decorative) non a caso ma in
polemica con gli scritti sull'arte del Tolstoj, centrati
sull'idea religiosa. Intendeva creare una "religione" dell'arte in sostituzione delle vecchie religioni ormai
tramontate, e raffigurandosi ingenuamente una condizione
sociale che sta tra la corporazione medievale e la Città del
Sole dimostrava di essere in certo senso assai meno realista
del grande romanziere russo. Tuttavia le idee di progresso
non mancavano al Segantini e in queste idee e in quella sua
preoccupazione per l'attività artigianale egli apparteneva
in pieno al nuovo momento della cultura artistica europea,
momento che mescolava il socialismo scientifico al
socialismo umanitario, l'orgoglio per le conquiste della
scienza e un idealismo che finiva per esserne la negazione,
la disincantata apprensione delle realtà e l'abbandono ai
sentimenti più romantici. La corrispondenza tra Segantini e
Pellizza da Volpedo tra il '94 e il '99 è il documento
vivido di un siffatto ibridismo. Sta di fatto che forse il
vero tratto costante e comune a tutti i divisionisti era
l'ostilità alle posizioni ufficiali, il disprezzo per
l'accademismo e l'intonazione di "avanguardia" che il
loro atteggiamento assumeva appunto per via di questo
disprezzo congiunto all'idea di progresso nella tecnica e
nella società. (2) Dal punto di vista delle forme se la
pittura di Segantini aveva preso le prime mosse culturalmente consapevoli da Millet e poi dall'olandese
Anton Mauve piantando radici durevoli su terreno genericamente
"verista" (quanti disegni di Segantini non ricordano, a
causa della comune matrice, gli Zappaterra di Van Gogh !), il suo
approdo era tuttavia nell'allegorismo sentenzioso, in un
rinascimentalismo che mescolava curiosamente la tecnica
divisionista alla forma anticheggiante delle cornici,
l'attitudine di stampo giorgionesco (Venere di
Dresda) della Dea Pagana (1894), esposta qui ad Arco
col titolo di Dea
d'Amore, a quel suo levitare nell'aria come un ectoplasma e ai
lunghi capelli sciolti della medesima, derivati dal Beardsley
o, se si preferisce, da certe stampe giapponesi.
|
Si suole condannare l'aspetto simbolista e floreale dei
divisionisti maggiori pensando di salvare le opere o gli aspetti
non simbolisti: quelli in cui - come nel caso del Segantini -
prevarrebbe lo schietto confronto dell'artista con lo spettacolo
della natura, il suo vivido occhio di pittore impegnato a
rendere la maestà delle luci e dei colori della montagna e dei
suoi radi abitatori umani, vegetali o animali. Eppure è proprio
per il nitore pittoricamente splendente delle sue simbologie che
Segantini si innalza sulla maniera e sul gusto del momento, è su
quel terreno di simbolismo che egli va misurato, ed è ad essi
d'altronde che deve soprattutto la sua fama. Dalla Stanga
alla Ragazza che fa la calza, dal Fiore delle Alpi (è
facile vedervi il ricordo della positura di certe figure del Botticelli)
al Castigo delle cattive madri (1891, ispirato, sembra, dal poema indiano del Pangiavahli e inteso a
umanizzare il tormento della natura che soffoca le creature
scaturite dal proprio seno), (3)
dall' Amore alla fonte della vita (composizione ripetuta, poco prima di morire, su una
specie di ventaglio) al grande trittico su La Vita, la Morte e
la Natura, opera essenziale e purtroppo assente dalla
rassegna, la pittura di Segantini è costantemente una pittura
che vuole essere significante, ricca d'idee più o meno
accettabili, più o meno semplici, ma sempre grandiose sul dramma
della natura e sul posto che in esso hanno gli uomini.
Nell'apparente contradizione in termini di quel "godimento dei
sensi intellettuali" di cui Segantini scriveva ad una sua
interlocutrice (4) sta il segreto della sua personalità e il
segreto legame che lo univa al filone cui si allacciavano i
preraffaelliti e magari anche il Bòcklin da un capo e il
D'Annunzio dall'altro.
Non bisogna dunque dimenticare che è
principalmente sotto questo aspetto che Segantini ci offre anche
negli ultimi anni quanto meno una accesa testimonianza del suo
tempo. D'altra parte l'artista non mancava di contrappesi
istintivi e riflessi a quella sua tendenza simbolista: da un
lato era il suo stesso gusto per la corposità e la chiarezza
delle cose, la sua stessa sanità fisica e morale che lo teneva
lontano dalle astruserie troppo spinte (e in quel senso si può
anche accettare la definizione di "classico" che gli è stata
assegnata); dall'altro era il continuo scambio di idee e
incitamenti con Vittore Grubicy, che dopo aver affinato in
tutti i modi la cultura in senso critico dell'artista,
facendogli conoscere opere di artisti stranieri, assistendolo
con osservazioni e suggerimenti pazienti e minuziosi, lo poneva
di fronte all'aut aut tra una pittura interamente "verista"
nella direzione del divisionismo e una pittura che se voleva
esser simbolista doveva abbandonare il verismo degli scenari
paesistici e delle forme di dettaglio per trasfigurare
simbolicamente anche il disegno e il colore. Segantini
rispondeva che non intendeva abbandonare la tangibilità e la
concretezza delle sue "idealità", " se no - diceva - vi è la
musica, l'arte chiamata per eccellenza a esprimerle"
(5) : una
lezione e una polemica in anticipo, come si vede, verso il
futuro Kandinsky (ma sappiamo che in questo senso il Ciurlionis
precedeva, e di parecchi anni, il russo). E così continuava a
oscillare tra la rappresentazione diretta della natura e la
rappresentazione delle sue idee sulla natura, tra la
rappresentazione effettuale della luce del sole sulle montagne
e sui prati e la tentazione di conferire - per esempio - forma
di labbra rosate a una nuvoletta sospesa nella chiarità della
luce solare. Così Grubicy, disperando di poter identificare le
proprie aspirazioni artistiche nella pittura di Segantini, si
dava egli stesso a dipingere ricavando picole vedute ovattate
e labili, dai toni bassi e con una correttezza diafana, un po'
da chinoiserie.
In conclusione è ben difficile dire quanto nel Segantini degli
ultimi anni l'umanitarismo cedesse il posto all'estetismo. Qui
ad Arco è certo che Messa prima (coll. Kiisnacht di Zurigo), la
Benedizione delle pecore (Museo
Segantini di St. Moritz) o l' Ave Maria a trasbordo (coll. Fischbacher,
S. Gallo) e finalmente la ben nota Stanga della
Galleria d'Arte Moderna di Roma, tutte appartenenti al periodo "brianzolo", opportunamente documentano un momento
d'equilibrio tra le allusioni agli affetti umili e l'intimo
compiacimento per essi e per le intonazioni atmosferiche di luce
e di colore corrispondenti. Ma anche il periodo di Savognino
(1886-1894) presenta lo stesso equilibrio che, alla fine, è
rotto improvvisamente - almeno in apparenza - dall' Angelo
della vita (1894, Brera), ormai "Art Nouveau" in ogni senso
fuorché nel persistente ripudio del sintetismo pittorico, cui
Segantini non accederà mai, sino all'ultimo. Così se il
simbolismo prevale nel periodo del Maloja (tra il 1894 e il
1899, data della morte), esso rimane costantemente legato
(appesantito, dal punto di vista dei floreali ortodossi, dei
futuri fauves e degli espressionisti) al colmo bagaglio
pittorico essenzialmente verista del primo divisionismo. Ma era
proprio questo bagaglio, ancora una volta, il riflesso tangibile
dell'altro aspetto, quello umanitario e "sociale", della pittura
segantiniana.
|
Corrado Maltese
|
(1) G. SEGANTINI, Scritti e lettere, Torino 1910, p. 42.
(2) ID. , lettera a P. da Volpedo del gennaio 1888.
(3) A. LOCATELLI MILESI, L'opera di G. Segantini, Milano 1906.
(4) Scritti e lettere, p. 83 (gennaio 1896).
(5) Cfr. N. BARBANTINI, G. Segantini, Venezia 1945, p. 26. |
|
|
|
|
|