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(Fonte : Dedalo - Rassegna d'arte - 1920)
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LO SCULTORE LIBERO ANDREOTTI
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Nel settembre del 1914, dopo che la battaglia della Marna
ebbe liberata Parigi, lo scultore Andreotti nato a Pescia in
Lucchesia volle tornarsene in patria. Ne era partito da più
di otto anni. A Parigi aveva trovato rinomanza,
commissioni, agiatezza e raggiunto una sagace esperienza
dell'arte sua. Per verità, la scultura francese già decadeva. Intorno al
vecchio Rodin ormai inoperoso gli epigoni, da Maillol e da
Marque a Bernard e ad Epstein, cercavano di rifugiarsi nella
studiata ed esanime semplicità, nella purezza delle linee,
negli accordi delle cadenze che essi chiamavano classiche,
aiutandosi perfino con ricordi della grassa e ondulata
scultura indiana; ma il pubblico li seguiva stanco. II
vigoroso arcaismo in cui E. A. Bourdelle conteneva la sua
foga meridionale, era senza seguito perché i giovani più
avventurosi e meglio nutriti gli erano ogni giorno rapiti
dai cannibali: voglio dire dall'ammirazione pei feticci
dei cannibali d'Africa e d'Oceania che Picasso e Derain
avevano avuto il merito di dare e d'imporre, per qualche
tempo, alla curiosità parigina e anche alla moda, tanto da
dare con quei neri mazzapicchi l'ultimo
colpo alla frolla sbavata scultura da pittore, ormai da
mezzo secolo flagello dell'arte.
Anche Libero Andreotti era stato in Italia percosso da
quel flagello e perché quella era la moda e perché alla
scultura egli era venuto della pittura. Ma pronto, avveduto,
ostinato nel suo lavoro, colto nella storia dell'arte sua, e
perciò sempre chiaramente memore d'essere nato toscano
specie allora che viveva fra stranieri, se n'era venuto
liberando poco dopo il suo arrivo a Parigi, come provano i
bronzi delle Tre Parche, del Lottatore e
più della
Baccante curva che reca sulle larghe spalle il
piccolo Dioniso supino, stanco di giochi.
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Vi si intravvedevano già tratti di modellazione sobria e
ferma, una netta capacità di scelta e di dominio davanti
alla confusa e copiosa mobilità del vero, e un desiderio di
quella unità e stabilità e gravezza che la scultura italiana
era venuta rinnegando perfino nel basso rilievo, nel lavoro
cioè in cui essa più dovrebbe obbedire e aderire alla madre
architettura. Ma soprattutto apparve allora in pieno fiore
la fertilità della sua fantasia che nelle arti e nelle
lettere è oggi qualità tanto rara da esser quasi, per
comodo, dispregiata, è dico solo la fantasia dell'inventare
soggetti che è pure un segno di vita e di fervore, ma quella
fantasia singolarmente scultoria di trovare movimenti,
profili, simmetrie, bilichi, contrappesi, in una parola
composizioni nuove, sia osservando il vero, sia delineando
ed equilibrando sulla carta in nuovi schemi i proprii
pensieri e poi serrandovi e adattandovi il vero. Diceva
Winckelmann, riferendosi ai suoi greci : "Il bello consiste
nell'armonia delle parti la perfezione delle quali sta in un
loro dolce salire e discendere ...". Già da quando viveva a
Milano, Libero Andreotti povero a senza clienti era rinomato
fra gli artisti per questo suo fervido immaginare. Si
trattava, per necessità, di gessi e di terrecotte minuscole,
più bozzetti che scultore, e la frase "Ecco Andreotti con
due monumenti in tasca" era corrente fra i suoi serali
amici al Savini. Parigi gli dette il modo di trarre statue
da quelle idee.
Forse (e non ci credo) un poeta può vivere e morire
inedito e incompreso; ma uno scultore senza clienti è come
il grano senza sole. Bronzi, marmo, cera anche e creta
costano ormai tesori e, a tenersi i monumenti sul trespolo o
in tasca, lo scultore presto si strugge e si spegne. Parigi
dunque salvò Libero Andreotti, non solo perché gli dette i
mezzi per lavorare e incoraggiamento ad aver fiducia in
stesso e a migliorarsi, ma anche perché gli dette quel
diretto contatto col pubblico e coi committenti che oggi è
raro o nullo da noi e che fu in ogni tempo la forza degli
artisti capaci. Esposizioni e musei dovrebbero infatti
essere un mezzo non, come sono, uno scopo alla vita degli
artisti. Esporre per vedere le proprie opere comprate da uno
o da dieci ignoti, vendere allo Stato a al Comune per
ritrovare le proprie opere onorevolmente allineate nei musei
alle opere più diverse; questi belli usi coincidono anche
da noi con la decadenza dell'arte. Sapere invece che la
propria pittura dove andare ad adornare quella parete o
quell'altare, che la propria scultura deve andare in quella
nicchia o in quel giardino, ciò riporta l'artista a meditare
sui mezzi e sul fine dell'arte sua e del suo mestiere, e
sostituisce alla stizzosa gara cogli emuli e coi critici e
coi cronisti la silenziosa lotta con la materia, il rispetto
delle proporzioni e della luce ambiente, ed infine il
ritrovamento di sè stesso e della propria originalità per
piccola che essa sia. Libertà non vuole essere incapacità di
obbedire; ma capacità di restare se stesso pur obbedendo.
Quando Andreotti ebbe dal signor Charles Stern l'incarico di
dargli in bronzo due nudi femminili per la sala di musica
che nel suo palazzo al Boulevard Lames il pittore Maurice
Denis gli aveva decorata; quando sir Philip Sassoon gli
commise, per una balaustra di quella sua villa vicino a
Londra che mesi fa ha ospitato la raminga Conferenza della
raminga pace, un gruppo anche in bronzo che poi fu quello di
Diana e Atteone e fra le due statue i levrieri lanciati
della dea a sbranare l'innamorato indiscreto: lo scultore
trovò la sua via, si ritrovò cioè faccia a faccia con la
verace arte sua che l'uso moderno aveva traviata dal suo
compito decorativo e architettonico.
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Sentì insomma che la scultura non è solo soprammobile
pittoresco e un gingillo capriccioso più o meno pesante, ma
un fatto, prima, dell'intelligenza e della logica,
obbediente cioè alla materia in cui è tagliata e allo scopo
cui e destinata. ?Debbono le figure essere condotte
più col giudicio che con la mano ", ammonisce il Vasari nel
primo capitolo sulla Scultura. Libero Andreotti lavorava
alle sere di questo gruppo di Diana ed Atteone
(ricordo palermitano d'una delle metope di Selinunte) quando
scoppiò la guerra, e, come ho detto, nel settembre del 1914,
dopo quasi otto anni, tornò in Italia ed a Lucca. Era nato a
Pescia trentott'anni prima, fuori di Porta Lucchese, da una
famiglia di laboriosi campagnoli inurbati da poco, originari di Santa Maria a Monte sopra Pisa. Quando in
quell'autunno tragico egli rivide a Lucca Nicola Pisano,
Jacopo della Quercia, Matteo Civitali e, fuori della
cattedrale di San Martino, i bassorilievi quadrati cogli
emblemi dei dodici mesi d'una purezza cosi maschia che la
prima arte greca non ha niente di più conciso e possente;
quando nella cattedrale di Pescia rivide le decorazioni del Buggiano erede ed allievo del Brunellesco, gli parve
d'essere il figliol prodigo tornato dai bagordi e dalla
miseria alla serenità della casa paterna. Tutta la vita,
dentro quella semplicità, era da ricostruire pietra a
pietra. Ma la guida e il conforto erano li, ed egli nella
pienezza della maturità sapeva accoglierli ed intenderli con
esperienza e con umiltà. La guerra poteva finire dopo un
mese, dopo un anno, dopo cinque anni. Egli non sarebbe più
partito dalla sua Toscana. A certi ritorni e rincontri danno
colore e rilievo il tempo in cui ci capitano e l'animo con
cui li affrontiamo. Non era quel ritorno dell'Andreotti
nella Lucchesia una gita di piacere o un viaggio di studio.
Si ripensi a quel che furono per tutti noi i primi mesi
della gran guerra, al disperato sgomento in quello schianto
e in quelle tenebre cadute d'un colpo sulla lucida e
accomodata civiltà nostra. Si confronti la febbrile Parigi
che aveva udito il cannone rombarle alle porte, che aveva
veduto i suoi lindi viali invasi dagl' insanguinati
fuggiaschi di Charleroi, e quasi non credeva alla sua
salvezza; la si confronti con la piccola Lucca che pur
lontana dalla guerra e dalla frontiera già sentiva arrivare
fin dentro al suo aggrondato silenzio ed alla sua cerchia
alberata il caldo soffio della tragedia imminente. E si
vedrà se nell'animo degli artisti maturi e capaci questi
anni di guerra siano davvero stati, come dicono gli
scettici, inutili all'arte loro.
Dagli Otto ai diciasset'anni Libero Andreotti a Pescia
aveva lavorato da fabbro; prima, buono a tirare il mantice
della fucina e a risegolare le falci per l'erba; poi
tornitore in una piccola officina meccanica e la sera
assiduo alla Scuola del Piccolo Operaio. Arte poca, se non i
disegni pei cosi detti padiglioni del Corpus Domini :
immagini di altari che si disegnavano a gara in ogni
quartiere sul lastricato o sulla terra soda della piazze e
poi si colorivano coi fiori vivi, riempiendo cioè il disegno
di margherite, di rose e di tulipani selvatici. Ed era come
un concorso, nel quale quel ragazzo aveva presto acquistato
fama di destro ed immaginoso. Sui diciasset'anni l'aveva
colto l'uzzolo di salire, e aveva studiato mesi e mesi per
diventare maestro elementare, ma al momento dell'esame la
paura aveva potuto più dell'ambizione. Se n'era venuto a
Lucca dove aveva conosciuto Alfredo Caselli. Il droghiere
poeta e l'amico fidato di Giovanni Pascoli, e Vito Maschi di
Sarzana, avvocato e anch'egli poeta.
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Questi buoni lo avevano incoraggiato insieme alle lettere
e all'arte, e la conclusione era stata che, sapendo ormai a
mente tutte le Myricae e volendo almeno vivere vicino alla
carta stampata, Andreotti aveva accettato un posto nella
libreria Sandron nientemeno che a Palermo, ai Quattro Canti,
e vi era rimasto due anni disegnando nelle ore libere le
caricature pel giornale La Battaglia di Alessandro Tasca di
Cuto e mandando di nascosto qualche sonetto al Pascoli che
gli restituiva il dono mandandogli anch'egli i suoi versi
manoscritti ed inediti : tesori che il giovane ramingo si
custodiva sul cuore. Palermo era lontana. Quando nel 1899
gli capitò un impieguccio in una tipografia fiorentina, egli
tornò in Toscana, e si stabilì a Firenze. Copertine,
illustrazioni, manifesti, e miseria. Viveva con Adolflo de
Carolis, Sem Benelli, Galileo Chini, Oscar Ghiglia, Enrico
Sacchetti. Enrico Sacchetti sdegnoso, sarcastico,
refrattario, lo convinse che la sola professione degna d'un
uomo libero è l'arte. Ma a disegnare, a dipingere, a
inventare illustrazioni a tre e a cinque lire l'una, a
collocare un quadretto presso un cliente più caritatevole
che convinto, si fa arte e non s'ha libertà. Sacchetti, si,
aveva trovato nel disegno sintetico e feroce il modo
d'esprimere l'animo suo e la sua sorridente vendetta.
Andreotti no. A Palermo s'era disegnate e ridisegnate le
Metope di Selinunte, Perseo con la Medusa, Ercole e
l'amazzone, Minerva e ll gigante, Diana e Atteone. A Firenze
si rifugiava in Donatello. Quella era l'arte: definitiva e
in Infrangibile. Ma, come ho detto, un'arte da signori, la
scultura. L'editore Nerbini gli dava da illustrare magari i
romanzi di Victor Hugo, ma non gli chiedeva un bozzetto
nemmeno per un monumento a Quasimodo. All' Accademia
nell'esame per frequentare la scuola libera del nudo era
stato bocciato, proprio con un disegno dalla Venere
siracusana.
Un inverno che era senza casa (l'inverno, credo, del
1902), gli offrì ospitalità nel suo studio un giovane
Fiorentino. Mario Galli, che si dilettava di scultura e che
poi è diventato il più accorto e stimato raccoglitore di
pitture dei ?macchiajoli" a Firenze. Libero Andreotti si
chiuse in quello studio e lo popolò di gessi colorati e di
terrecotte. Per la prima volta poté inventare e lavorare in
pace, per se; per la prima volta poté modellare a suo agio.
E poiché Enrico Sacchetti era partito per Milano,
l'Andreotti "con le sue statue in tasca" ve lo raggiunse.
Altra vita, altri mezzi, altre speranze, altro volo, lassù.
Nel 1905 poté esporre a Venezia. Le sue statue e statuette e
Alberto Grubicy le portò fino a Parigi, nella serra
dell'Alma, al Cours Ia Heine, con un'esposizione dei suoi
diletti divisionisti. Riuscì a porre nel Salon la Vetta,
un adolescente genuflesso che ha l'ali al posto delle
braccia, e il volto arrovesciato e la bocca schiusa
nell'impeto del sogno, e spiega disperatamente quell'ala
d'aquila a sollevar dalla terra il suo scarno corpo e la sua
speranza. Se stesso in quell'impeto dovette figurare
l'artista, con un'arte serrata e vibrante che finalmente ne
rivelò tutta l'energia e la maturità. Fu quella la prima
opera che egli vendette a Parigi, e che lo condusse a
Parigi.
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Da più di cinque anni Libero Andreotti rivive in Italia.
Chiamato nel 1917 sotto le armi, sebbene di classe anziana e
destinato a restare col suo battaglione territoriale in
Toscana, chiese dopo Caporetto di venire al fronte.
Insegnava come supplente alla cattedra di Domenico
Trentacoste nell' Istituto fiorentino di belle arti. Lascio
la scuola, anzi perdette la scuola perché, come s'usa nella
brutta Italia ministeriale, al suo ritorno dalla milizia
trovò il suo posto gentilmente affidato ad un'altro. Al
fronte fu mandato come interprete prima presso le truppe
francesi che erano fra il Tomba e il Montenera, poi presso
quelle che erano sugli altipiani vicentini. Pel suo lavoro
un anno di sosta dal quale riportò solo dei minuti e
squadrati disegni. Ma tutte le opere sue, dopo il ritorno in
Italia, prima a Lucca poi a Firenze, muovono da un
sentimento nuovo. Nella Donna coi cembali e nella
Danzatrice di casa Stern la Linea era già armoniosa
e seducente; ma una certa grassezza e quasi grossezza
arrotondava mollemente quei bronzi graziosi. Una secchezza
tutta toscana invece definisce adesso il suo modellare, e i
piani si succedono e si rispondono netti e decisi come
parole ben scelte e ben pronunciate. Non una figura in
movimento, meno la Vela, ma tutte statue che stanno salde
sulle gambe ritte o ben sedute o accosciate, sicure sempre
del loro equilibrio, cosi che il gesto delle braccia o delle
mani; e l'espressione del volto è quasi un ramo o un fiore
in cima a un solido tronco o un fregio in cima a una
riposata architettura. Quasi tutte donne. E le pieghe
abbondanti delle loro gonne distribuite per gravi masse con
buon giudizio, cosi da sorreggere e quasi commentare lo
spostamento del volto, delle braccia, del torso, dei
fianchi, più mostrano questa ricerca del peso e contrappeso
che l'essenza della scultura.
La targa a mezzo rilievo in memoria del ginecologo
Giuseppe Resinelli nell'aula della Maternità all' Istituto
fiorentino di Studi Superiori, prova meglio d'ogni altra
opera dell'Andreotti la sua nuova volontà di semplicità e di
chiarezza, la sua capacità di composizione e d'espressione.
Se non fosse il fondo stagliato intorno ai profili che sa
ancora di pittorico, questo bassorilievo per la tanta
severità d'arte e umanità d'emozione e appropriata verità di
sentimenti che chiude dentro i suoi due o tre piani precisi,
sarebbe un esempio, nella presente scuola nostra, più unico
che raro. E lo stesso ricordo ghirlandajesco della fantesca,
sul davanti, curva a sollevare la conca, mi piace perché
rivela che questo scultore non teme gli antichi e non li
fugge come fanno oggi i tanti ribelli per comodo
d'ignoranza, ma tra i ricordi dei suoi antenati gloriosi si
muove a suo agio, confortandosene e giovandosene come hanno
sempre fatto gli artisti. La stessa lode si può dare al
gruppo del
Perdono. Pensandolo per adornare il piano superiore
d'un alto camino cinquecentesco senza cappa, l'artista ha
tratto dalla stessa strettezza e lunghezza di questo piano
occasione a una composizione originale e piena, con la
figura diritta triste e legnosa della madre contadina che
con raffrenata bontà tende le braccia alla figlia perdonata
mentre questa discinta, spettinata e disperata, curva il
torso fioroso a nascondere la fascia piangente nel grembiule
di lei. Con una di quelle irrealtà suggestive e anche
logiche care ai racconti dipinti del medioevo, il bimbo che
nascerà si pianta già in piedi, tra le due donne, riempie
col suo corpicino grasso e prospero, con le sue braccine
alte, col suo volto rotondo e ridente, il vuoto tra le due
gonne. Par che dica : - Solo quando io sarò nato e vi
sorriderò, tutto sarà dimenticato -. Qualche eccessiva
durezza nel volto della vecchia e del bambino non
diminuiscono la continuità della linea e la poesia di
quest'opera dove gli elementi narrativi e quelli plastici si
equilibrano classicamente.
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Talvolta, come nella Vela o nella Limonara,
l'Andreotti sa divertirsi, per la sua fresca fantasia, anche
in movenze sardoniche e affettate, meglio così scoprendo
quanto di riflessione sia nel suo toscanissimo ingegno,
quanto d'artificio sia nella sua arte. (Si deve tornare ad
adoperare la parola artificio nel suo primo senso di uso
deliberate dell'arte acciò essa raggiunga il suo pieno
effetto). Ma quest?arte non perde mai la sua grazia e
l'unita della sua linea, cioè il suo potere di piacere a
convincere anche con quei mezzi più secchi e asprigni.
Piacere e convincere. Niente è più puramente accademico,
destinato cioè con bene ondulati profili a piacere agli
occhi soltanto. E in questo risorgere (ancora più in teoria
che in pratica) dell'ammirazione per l'arte e per le idee
dette classiche e più precisamente neoclassiche, si deve
parlare preciso per allontanare i comodi equivoci. L'arte
italiana, meno che in piccoli uomini accademici e retorici
chiamati artisti solo nelle necrologie dei colleghi, porta
sempre con se tanto d'umanità varia e viva, tanto di realtà,
tanto di espressione anche nelle opere più meditate e
ponderate come sono queste sculture dell'Andreotti, che si
può dire niente di quanto davvero classicamente italiano
essere insipido e vuoto d'anima. E per ciò piacendo
convince. Accordare questo amore dell'espressione singolare
e del carattere con lo stile, scegliere e comporre con desta
intelligenza senza facili abbandoni e svenevolezze da
ignoranti i tratti espressivi così da non perdere mai nelle
minuzie e nei guizzi del vero l'idea dell'arte, e in questa
scelta e composizione essere guidati tanto dall'amore dell'idea quanto dal rispetto anzi dall'obbedienza alla materia
da trattare: questi sono i caratteri dell'arte italiana, per
dir solo della scultura, dalla Madonna di Giovanni che è
sulla porta del Battistero di Pisa al papa Ganganelli del
Canova che è in San Pietro di Roma.
Libero Andreotti, con una silenziosa assiduità di lavoro
con cui sembra di voler riacquistare il tempo perduto nelle
fatiche e incertezze della sua gioventù, prova adesso di
sentire queste infrangibili leggi nostre: e di sentirle
lietamente, cioè d'istinto, come leggi a lui toscano
naturali e care. Quando insegnava all' Istituto di Firenze
(adesso occupa la cattedra di plastica nell' Istituto d'arte
decorativa, accanto alla chiesa di Santa Croce) diceva ai
suoi - Non crediate di far opera mediocre se amate ciò che
fate. Ma i più degli "artisti? amano se stessi più del
proprio lavoro, e il loro ansioso egoismo li esclude
dall'arte. Per questo Libero Andreotti è e si compiace di
essere un solitario. E questa solitudine, se durerà, resterà
la sua forza e sarà la sua salvezza.
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Ugo Ojetti
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