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(Fonte : Dedalo - Rassegna d'arte diretta da Ugo Ojetti - Milano -
Roma - 1920)
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IL PITTORE ARDENGO SOFFICI
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Mi piacciono parecchie delle pitture che Soffici ha raccolte
nella sua ultima esposizione, di vecchi e recentissimi anni;
trovo belle senz'altro molte pagine dei suoi libri; ma
quello che mi interessa di più è sempre il "caso Soffici?
; cioè a dire gli sviluppi della sua mentalità. Risalire
alla sua mentalità, dopo tutto, è forse il sistema migliore
per capire le qualità gemelle del pittore e dello scrittore
(e poi vi è anche il critico). Di quel pittore-scrittore che
ci dava con parallelismo assoluto "Arlecchino? nel
periodo delle rappresentazioni di Poggio a Caiano, e
Bulciano, e "chimismi lirici? a tempo della pittura
futurista; e ora insieme alla "bottiglia bianca e mela?
, "bottiglia bianca e limone? le pagine della
confessione in "Rete Mediterranea ? ; che sono
anch'esse, come scrittura, a tinte unite (e un po' sorde
magari), poca aria di respiro, grigio su grigio, tonalità
bassa. E sopratutto, qui e là, grandi scrupoli di
definizione fino in fondo, frugamenti conoscitivi, esattezza
pulita di espressione, a proposito di volumi o di psicologie
poco importa. La guerra, ha avuto su di lui conseguenze
morali forti e durature; ed egli si illude forse anche
artistiche. In ogni modo "sono uscito dalla guerra un
altro uomo? dice : e primo effetto di questo
sconvolgimento e poi riassestamento della sua persona
morale, è stato quell'antichissimo onesto inevitabile atto
d'ogni crisi di spirito: un esame di coscienza accurato, con
proposito di sincerità assoluta come in una indagine
storica, e sforzo di arrivare a risultati certi.
Letterariamente ha compiuto quest'esame esponendo in alcuni
libri il meglio della sua vecchia produzione critica;
narrandosi schiettamente e con gran semplicità in alcuni
episodi guerreschi; analizzandosi, e l'analisi continuerà,
in "Rete Mediterranea?. Pittoricamente, dipingendo
senza presupposti o sottintesi, snebbiato da ogni teorismo
preconcetto, alcuni "esercizi di stile? quasi,
parrebbe, per vedere "a che punto s'era? dopo tanto
intervallo ed esponendo cronologicamente in pubblico tutta
l'opera sua dal 1903 in poi.
Il 1919 e il ?20 sono stati dunque per Soffici una sosta di
orientamento e un riepilogo. N'è venuto fuori un curioso
resultato. Cioè lo svalorizzamento, in gran parte, di quel
periodo di attività e d'opera che era sembrato invece
foggiare la fisionomia caratteristica del Soffici. E forse
non è stato neanche un resultato curioso, ma piuttosto
necessario e naturale. Nel primo decennio del secolo, a quel
modo non s'andava più avanti, tutti n'erano persuasi, ne in
lettere ne in arte. Tanto in lettere quanto in arte c'era
aria viziata, per ragioni diverse; e bisognava tirarsene
fuori per non asfissiare. Da varie parti i più giovani e i
più audaci si buttarono allo sbaraglio. Soffici fu uno di
questi. Primo impellente bisogno, negazione di quel che c'
era; e questo, con o senza giustizia, era sufficientemente
facile. Secondo, trovare un nuovo solido equilibrio
d'assetto: ed era il difficile. Si cominciò col negare il
presente italiano, si negò poi l' italiano senz'altro, tutta
la tradizione italiana ritenuta colpevole di aver maturato
gli ultimi frutti detestabili.
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Parve
per un certo tempo veder la salvazione venire di Francia. Ma
anche a quel modo nuovo non era sufficientemente nuovo: e
allora tabula rasa di tutto l'esistente, e un salto
addirittura nel futuro. Per la logica inevitabile della vita
il salto fu nel vuoto. Tagliare i ponti fu la parola
d'ordine. Ma tagliati i ponti s'era in un vicolo chiuso. II
movimento esasperato, intenzionale, polemico, cioè sempre di
valore negativo, sfiorò appena l'arte senza intaccarla. Il
momento creativo non giunse. Lo sbocco naturale e logico da
poi che si trattava di polemica e combattimento, furono non
i dipinti e le poesie, ma gli insulti e i pugni che
accompagnavano i quadri e i versi, e i quadri e i versi in
quanto erano insulti e pugni. In realtà si trattava di un
equivoco enorme. L'amore del nuovo, del passo avanti non può
non essere anche, per uomini che vivono la vita
dell'umanità, una "collocazione storica". La quale,
per definizione, non sarà possibile se con strappi e lacune
dalla continuità di tradizione. Senza contare che l'amore
del nuovo, dell'originalità, si era esacerbato fino allo
strambo; e, cosa strana per chi andava dalla mattina alla
sera a caccia della quintessenza della spiritualità,
materializzato e meccanizzato in modo incredibile: lo si
andava a mettere la da dove esso rifugge senza possibilità
di costrizioni: nella materia e non nello spirito,
nell'apparenza e non nel sostanziale, fuori e non dentro. Il
giorno in cui, dopo la pausa guerresca che molte cose ha
fatte impallidire, perdere interesse, dimenticare, e molti
fumi per ragioni di tempo sfumare, il giorno in cui la vita
ha ripreso, e la gente s'è fermata un po' per raccapezzarsi,
guardare intorno, guardare in se, ripigliare il suo passo di
marcia, s'è ritrovata dove proprio non credeva. Su una via
che veniva da lontano lontano, e andava questa davvero nel
futuro, nel nuovo; nel nuovo che è vuoto solo perchè dovremo
noi riempirlo di noi e delle nostre opere. Questa non se
l'aspettavano, forse. E sono stati parecchi. Soffici,
sopratutto per il suo passato, n'è l'esempio più rumoroso: (ah!
quel benedetto vizio di far rumore! benedetta gente che non
può mai fare le cose tranquillamente, come tutti gli altri,
anche se diventa santa!, pensava Don Abbondio
dell'Innominato). E per questo, anche per questo, siamo a
parlare di Soffici: o, come meglio s'addice a "Dedalo" ,
della sua pittura. In tre quarti della quale il pittore e
alla ricerca di se stesso, senza trovarsi. La necessità di
spaesarsi fuori dell'ambiente italiano del suo tempo,
l'abbiamo detta. Fu per parecchi anni in Francia, e
soggiacque naturalmente al fascino di Degas, Renoir, Cezanne
e qualche altro.
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La prima ricerca di se fu attraverso costoro e, secondo le
volte, più traverso l'uno o l'altro. Ne rimane, oltre tutto,
testimonianza esteriore ma certa, quella simpatia per le
visioni di paesi e le nature morte. In lui, come in cento
altri, tranquilla, soddisfatta, ignara; neanche sospettosa
che c'e qualcosa d'altro nel mondo da vedere che nature
morte e paesi. Notar ciò può sembrare impuntarsi su un
accessorio banale; e non è. Dicono, lo diciamo tutti, che
l'occasione conta poco all'arte, e la materia da formare e
indifferente sia una o un altra. Giusto. Ma con i nostri
pittori la verità è che non siamo davanti a una libera
scelta, se ne rendano conto o no; e la questione cambia
faccia. Siamo davanti alla perpetuazione artificiosa di
situazioni storiche oramai esaurite. Paesaggio e natura
morta, tale scelta di soggetti, fu nel furore del
combattimento, l'agguanto disperato di un aiuto, sia pure
tutt'affatto esterno, per meglio riacquistare la propria
libertà di visione, contro gli schemi abusati di pittura. Si
pensò fosse utile, e lo fu, cambiare il punto di partenza
dell'ispirazione, e la materia prima dei suggerimenti. Il
paesaggio fu contro quelle servitù disegnative che sembrava
più difficile sconnettere dalla figura umana. Contro le
troppe macchie dissoluzioni impressionistiche, sembrò più
facile riacquistare senso di forma e di volume,
appigliandosi a oggetti refrattari assolutamente ai valori
di movimento; di volumi; a forme quasi di geometria solida.
E anche il paesaggio e le figure viventi furono
volumetrizzate, e ridotte, in fondo, a nature morte.
Paesaggio e natura morta furono cioè, oltre il resto,
proteste polemiche contro quello che si voleva negare; e
simboli sbandierati della battaglia Che si combatteva.
Tornava di Francia. Lui figlio di popolo campagnolo, che
nonostante le arie doveva sentirsi, dentro, pesce fuor
d'acqua a Parigi, torna alla terra. Vedete spettacolo
semplice. Ci si ritrova. Ritrova, riguarda con gioia ogni
cosa com'era, ogni cosa a suo posto. Ma ogni cosa vecchia ha
oggi novità. Dietro al pagliaio ci sono ancora accatastati
tronchi e pedagni anneriti nel taglio, da anni infradiciati
e risecchiti dall'acqua e dal sole, che chi sa quando
serviranno. Il muro nella strada ha sempre le solite
scortecciature: e tra il graffito, a serpeggianti, le
scolature e le chiazze, la sua faccia rugosa e ricca di
colore e di pasta. Il trogolo di pietra, lavorato a subbia,
e incastrato ancora nel muro sotto il finestrino stretto, da
cui passa ogni tanto un grifo nero e un grugnito. Lungo il
fosso del prato i salci tuffano le radici nell'acqua e
invano ogni anno fuori i bei frustoni pieghevoli e schietti:
glieli ritagliano sempre rasente i rami grossi; che son
nocchiuti, screpolati, ronchiosi, come le mani di un
muratore vecchio mangiate dalla calcina. E quella casa, la,
e sempre la stessa: con l'aia al sole lastricata e asciutta,
e dietro, a bacio, terreno sempre umido, ingombro di
rottami, di stecchi, di sassi, di cose piovute dalle
finestre, dove nessuno mette piede e l'erba ci cresce in
silenzio nera, gonfia, lucente. E quella siepe dell'orto, la
alle Fornaci, sempre la stessa, la vecchia; fatta di punte
di pali incavicchiati alle traverse, mezza imporrita, a
pezzi, con il cancello tra due paloni più alti, legato colle
ritorte di vinchi: dentro i campicelli di radicchio che lo
tagli e ributta, le cipolline fresche in tante file, e i
cavoli neri sfogliati, pelati, che non c'e più rimasto che
il torso.
Oggi insistere tenacemente in certe predilezioni, vuol dire
un poco precipitarsi a catapulta contro una porta sfondata;
e se non è segno di pappagallismo e di impotenza, ha tutta
l'aria di essere almeno pigrizia. Si trova scomodo, o troppo
duro per i denti teneri, estorcere quei valori di arte
definitivamente acquisiti dagli schemi materiali della
visione traverso cui si manifestarono; e assorbirli e farne
nutrimento di visioni proprie. Magari l'artista si impegna
con cristallina passione su quelle predilezioni, non dirò ma
a la sincerità l'opera che ne va di mezzo: e che si riduce a
una mezza sincerità. Riconosco per altro volentieri che le
nature morte d'oggi giorno (cosi austere di impianto,
formali e lontanissime perciò dalle nature morte descrittive
del '600), possono essere un eccellente esercizio di mano e
di stile. Come le "accademie? cent'anni fa, un piede, un
braccio, un torso di statua; o nel quattrocento disegnare
alla cappella Brancacci; e nel cinquecento davanti al
cartone di Michelangelo. Occorrerebbe però non se ne
dimenticare.
Ma tutto questo discorso non è quello che mi importa ora; (e
una natura morta infine, ora e sempre, può essere un
capolavoro: io parlavo del vizio). Volevo solo indicare,
anche con un fatto materiale, la mossa di Soffici dalla
pittura francese: cosa risaputa. Come egli non è un facilone
non si contentò dei resultati, non sentì di possedersi
ancora. Dotato di facoltà critiche cominciò a pensarci
sopra. Invece d'aver pazienza d'aspettare, lavorando e
scavando, che venisse fuori netta la spontaneità del suo
temperamento, per via d'esperienze puramente artistiche,
pretese di cercarla e di scoprirla dietro guida di
raziocinii. Fu principio di una serie di guai. Provò a
scarnificare dalla polpa carnosa la sua pittura, quasi con
la speranza di ritrovarne l'ossatura pura e rifarsi di li.
Indagò in pagine e in tele sulla teoria della deformazione.
Poi fu la volta della scomposizione di piani e volumi. Del
futurismo che egli contribuì a inventare. Del primitivismo.
Pittore, sbalestrato, era ormai a rimorchio del critico
incaponito in ricerche normative fuori strada. Finchè venne
la guerra a mettere un fermo, nell'ordine temporale, a
questo sbandamento. Eppure in un punto almeno Soffici era
stato vicino a scoprirsi, quasi s'era scoperto. Fu negli
anni dal 908 air'11, anni di ritorno e d'abbandono.
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Questo era veduto non con l'occhio del cittadino che va trenta giorni in
campagna, e cerca le lucciole, le mammole e i tramonti, quello che ha letto nei
libri, e resto non gli si offre o gli si sperde allo sguardo in una generalità
senza fisionomia: ma con l'occhio di chi c'ê vissuto nel mezzo da ragazzo, per
cui tutto ha una ragione d'essere e una esistenza, individuato nettamente; la
canna che infrasca il fagiolo come il paracarro sbreccato alla svoltata della
viottola; la carriola dello scassatore, come la carriola della concimaia, che
non sono le stesse. Aspetti delle cose chiari, solidi, pacati. Chissà quante
volte palpati e soppesati con l'occhio e con la mano quante volte presone
contatto a sensazione di pelle e di muscolo. Quando l'artista tornò di Francia,
e in un momento propizio sentì urgere il bisogno di crear forme e d'esprimersi,
non ebbe da andare a cercare il motivo; il suo paese toscano naturalmente gli si
offerse a materia. Fu come una cantata a gola piena, liquida e sonora, senza
svolazzi ne ricercatezze. Forme semplici precisamente delimitate nei loro
piani, connesse senza sforzo, costruzioni elementari secondo le franche linee
essenziali delle cose, ritrovate a furia d'amore della perspicuità e
dell'esattezza. Ogni cosa si presentava nella sua nota immagine tranquilla,
tutta se e niente altro; senza bisogno di accattare fiorettature a freddo, nella
stringatezza della struttura nativa, povera di avventure disegnative, ricca di
solidità organica. Non c'erano ne sottintesi ne segreti di nessuna specie; ma la
volontà d'impiantarsi, d'essere, di vivere, con l'attributo solo della sanità,
che assicura buon respiro e la carne soda. Egli era nella più autentica
tradizione toscana. Voltandosi indietro poteva riconoscere i suoi antenati e
maestri. Lui stesso ne ha nominati diverse volte alcuni con preferenza : Giotto,
Paolo Uccello, Beato Angelico. Dopo, poichè in questo senso la scuola toscana
nel quattrocento e finita e ripiglia solo ogni tanto a barlumi, n'aveva
riconosciuto un altro recentissimo, e l'aveva anche amorosamente salutato,
Giovanni Fattori. Si mostrava dei loro. Di Francia aveva riportato qualche cosa
con se. Se non proprio di fronte ai più vecchi maestri, rispetto al più vicino
egli aveva una minore incisa determinazione lineare, pur non abbandonando mai
nella sua pittura i previi contorni disegnati; e una grande voluminosità
corposa. Anche aveva imparato ad adoperare il colore, ricco d' impasto e di
tono, come mezzo di costruzione plastica, e non solo di costruzione cromatica.
Ma tutto egli era riuscito ad aggiogare alle sue qualità autoctone, e a far
diventare consanguineo. Furono i tempi della Raccolta delle Olive delle
Fornaci di Sopra, di Santa Cristina, e la Strada e le
altre. Soffici era sul punto di possedersi e scoprirsi. Ma fu allora che venne
l'oscuramento critico e intenzionale. Rottami delle sue qualità migliori
galleggiarono appena qua e la. Pareva perduto, salvo. Rimesso a netto il suo
spirito da tutte le incrostazioni maligne, egli s'è ritrovato qual'era nel tempo
migliore. Le ultime nature morte e la Casa colonica sono nello spirito di
dieci anni fa. Non diremmo che ci sia un progresso? E forse è presto; bisogna si
rifaccia la mano e riacquisti padronanza. Ma è un gran bene che ricominci di li;
in quella linea, che e la autentica delle sue possibilità, egli può far molta
strada. Bisognerebbe, forse, che abbandonasse il frammento e tentasse l'opera. E
bisognerà, certo, che non si faccia prendere mai più dal demone raziocinante e
programmatico.
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LUIGI DAMI
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