Pillole d'Arte

    
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(Fonte : Fiorentina Primaverile - 1922)

Libero Andreotti


E' uno dei pochi artisti che in mezzo alla piatta volgarità e alla facile millanteria della scultura contemporanea lasceranno una impronta di
serena e nobile bellezza.

L'Andreotti, nato nel 1877 a Poscia da una famiglia di artigiani campagnoli, appartiene a quella gente lucchese che è fra le più agili e duttili, intellettualmente, della Toscana ed ha la virtù sopra a tutte più propria al successo: la tenacia. E tenacia ne è occorsa molta all'Andreotti per conquistare prima l'espressione definitiva della propria arte, eppoi per imporre questa espressione al riconoscimento del nostro pubblico e di certa nostra. . . critica, assuefatti alle forme della retorica più sbracata o del più pedestre realismo. Mi ricorderò sempre l'accoglienza ostile, e la stizza con cui qualcuno accolse le prime opere che, di ritorno da Parigi, l'artista esponeva a Firenze nel 1914 L'Andreotti sorrideva, allora, non so se più amareggiato o divertito.

Perchè l'Andreotti ha sempre sorriso, per isfida e per ironia, in faccia alle avversità degli uomini e a quelle della sorte. Anche contro quest'ultime ha dovuto lottare non poco! Nella sua prima giovinezza ha fatto il fabbro, il tornitore meccanico, poi, obbedendo ad un bisogno istintivo di elevazione intellettuale, si preparò per divenire maestro elementare, ma «al momento dell'esame - scrive l'Ojetti che all'Andreotti ha dedicato recentemente un incisivo profilo su «Dedalo» - la paura aveva potuto più dell'ambizione».      

Comunque, una volontà oscura, indefinibile di evadere dalla condizione umile nella quale il destino lo aveva fatto nascere, lo sospingeva, lo confortava a prendere il largo della vita, le vie del mondo. . . .
E' «Se n'era venuto a Lucca - narra l'Ojetti - dove aveva conosciuto Alfredo Caselli, il droghiere poeta e l'amico fidato di Pascoli, e Vito Fiaschi di Sarzana, avvocato anch'egli e poeta. Questi buoni lo avevano incoraggiato insieme alle lettere e all'arte, e la conclusione era stata che, sapendo ormai a mente tutte le Myricae e volendo almeno vivere vicino alla carta stampata, Andreotti aveva accettato un posto nella libreria Sandron nientemeno che a Palermo, ai Quattro Canti, e vi era rimasto due anni disegnando nelle ore libere le caricature del giornale «La Battaglia» di Alessandro Tasca di Cutò e mandando di nascosto qualche sonetto al Pascoli che gli restituiva il dono mandandogli anch'egli i suoi versi manoscritti e inediti: tesori che il giovane ramingo si custodiva sul cuore».

Ma la Toscana col sorriso mite della sua arte e della sua natura gli cennava da lontano di ritornare a lei. E nel 1899 viene a Firenze. Qui conosce Adolfo De Carolis, Enrico Sacchetti, Sem Benelli, Oscar Chiglia, Galileo Chini tutti, allora, valorosi e giocondi combattenti in prima linea contro la miseria, per l'arte. E, fra il bozzetto per la copertina, la illustrazione o il manifesto, fra l'amore per Donatello e la bocciatura all'esame della Scuola libera del Nudo, all'Accademia, Andreotti s'incammina definitivamente pel suo necessario sentiero: quello dell'arte della scultura. Periodo atroce di lotte, cotesto, ma che pure valse ad affinare e temprare lo spirito dell'artista.

Nel 1905 espone a Venezia. Le sue cose piacciono ad Alberto Grubicy, il negoziante d'arte milanese, che le porta e le espone a Parigi. E a Parigi va allora anche l'Andreotti, nell'accogliente porto di tutta la intelligenza del mondo, il talento dell'Andreotti viene riconosciuto e, come si dice, valorizzato, e colà esso dà i primi frutti della sua maturità.
 
Sarà provvidenziale, tuttavia, che una diecina d'anni dopo, alla vigilia della nostra guerra, l'Andreotti ritorni in Italia e a Firenze; perchè qui - dov'egli ormai ha preso stabile dimora - la sua arte ritroverà il proprio ambiente naturale e l'atmosfera più confacevole al suo sviluppo definitivo.
L'arte dell'Andreotti è come quei figlioli d'emigrati che cresciuti all'estero, pur fra le influenze delle abitudini e delle apparenze esotiche, serbano spiriti e istinti italiani, e non perdono mai d'occhio il bel campanile del proprio paese.

In Francia - dove fino ad ieri (era cosmopolita) si elaborarono le forme, se non l'anima dell'arte moderna di tutto il mondo - dopo la disgregazione impressionista che, recidendo ogni nesso storico, aveva confinato l'arte nel regime della pura sensibilità e della scussa veduta oculare - la scultura in due riprese si cimentò a riconquistare i suoi originali caratteri plastici-decorativi. In un primo tempo, attraverso Rodin. Ma Rodin, massimo nel suo ultimo periodo, influenzato da Medardo Rosso, è ancora un impressionista, modellatore più di larve fantastiche campeggianti nello sfondo di liriche amplificazioni Vittorughiane, che di visioni essenzialmente plastiche.

Il secondo e più vigoroso impulso per ritornare alla propria fisonomia decorativa, la scultura lo riceverà dall'arte di Cezanne, che prima riaffaccia l'accezione della figura umana come pura armonia volumetrica, ossia essenzialmente plastica. (Processo del tutto opposto a quello che si verifica nel '500 in cui la plastica Michelangiolesca creò le forme della nuova pittura). Questa derivazione dalla pittura è evidente in tutta la scultura dei nostri ultimi tempi, i cui piani larghi ma scabrosi, verracosi, offrono al giuoco delle luci le più ricche possibilità del «colore».

L'arte dell' Andreotti in cotesta rigenerazione della scultura addusse il tesoro di un dono tutto italiano ed oggi suo in special modo: il senso della musicalità e della grazia, della «felicità» estetica, della bellezza integrale - la quale non è soltanto espressione, come predicava il barbaro anarchismo «naturalista» -: l'armonia, insomma.

Non invano lo scultore aveva accarezzato con sguardo ammirato e devoto a Palermo i capolavori dell'arte ellenica (li aveva anche disegnati) e, in Toscana. Donatello e Iacopo della Quercia, Benedetto da Majano e Rossellino. Tornando in Italia - a Firenze - misurò tutta la inanità di certo individualismo estetico di marca francese e comprese che anche in arte non si può essere qualcosa di veramente significativo e duraturo che a costo di riallacciarsi - spiritualmente - alla storia del proprio paese.

Il senso architettonico e l'armonia della composizione, lo stile inteso come sintesi emotiva, le risorse di una modellazione ampia e solida accoppiata a quelli effetti coloristici cui accennavo, la nobiltà e insieme la semplicità e vivacità talvolta arguta dei soggetti, fanno dell'arte dell'Andreotti un'espressione viva e moderna, In quanto a spirito; ma che tuttavia, nella prospettiva storica della nostra arte, troverà un suo posto ben determinato e notevolissimo.
Mario Tinti
Opere esposte :
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Bronzi a cera perduta.

1. Baccante.
2. Il Pettine spagnuolo.
3. La Donna dal ventaglio.
4. Popolana che si stira.
5. La Donna sul sacco.
6. La Donna che saluta.
7. La madre.
8. Nudo.