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(Fonte : Fiorentina Primaverile - 1922)
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Baccio Maria Bacci
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E' nato a Firenze nel 1888 da
Adolfo Bacci, un pittore il quale in quelle poche opere che
ha lasciato mostrava un genuino istinto pittorico.
Al
Bacci la pittura, come tutto ciò che si ama ardentemente,
ha dato accanto alle gioie anche assai pene. A 16 anni, nel
1904, siccome in
famiglia contrastavano la sua vocazione, per potere studiare
e dipingere liberamente scappò in Germania. E li visse per
un anno, vendendo i
bozzetti che faceva, finchè nel 1905, avendogli i suoi
accordato il nulla osta, a condizione che s'iscrivesse ai
corsi regolari dell'Accademia,
fece ritorno a Firenze. E' da credere che alcuni dei
chiarissimi professori che insegnavano a quel tempo nella
veneranda Accademia fiorentina
si sieno ricordati per un pezzo e si ricordino tuttora del
Bacci, come del più balzano e del.... meno tranquillo dei
loro scolari.
Trascorsi i tre anni di tirocinio, si era alla vigilia degli
esami di licenza - sarà mancata forse una settimana - quando
il Bacci scappò
«disperato» - come dice lui - dinnanzi alla idea di ricevere
il sacro crisma accademico.
La prima mostra personale la fece nel 1910 - a 22 anni - nel
Palazzo Gondi qui a Firenze. L'anno dopo espose alla
Regionale Toscana un ritratto
e un «Pomeriggio sull'Agro» - quadro che si trova nella
collezione del Cecconi (Thomas Neal).
La sua pittura era allora ispirata ai modi di un
impressionismo un po' impacciato, se si vuole, ma schietto,
succoso, robusto, con un fare e
un accento schiettamente paesano, dettato ad ogni modo, da
una visione più acuta e più commossa che non quella, dosata
a once o sfarfallata
alla brava, di certi epigoni del Macchiaiolismo.
Nel 1912 (il Bacci era allora un giovanotto pieno
d'impazienza e di una quasi spavalda voglia di cimentarsi)
fece un'altra mostra personale ed
espose nello stesso anno alla Promotrice alcuni quadri, fra
i quali «Un temporale sulle Alpi Apuane» che fu premiato e
si trova anch'esso nella
collezione Cecconi.
Chi veda oggi quelle tele, pur osservandone le molte mende,
vi sente come il pullular latente e urgivo di una volontà e
di un calore che stanno
a disagio in forme troppo anguste e precarie; le quali,
purtuttavia, per altri avrebbero costituito un notevole
resultato, forse il punto di
arrivo.
Anche il Bacci nel 1912 fece il suo bravo viaggio a Parigi.
Ma siccome egli è temperamento ben saldo, né l'aria del
«Lussemburgo» né quella di
Montmartre gli fecero perdere la tramontana. Soltanto, la
sua tavolozza divenne più nervosa, più duttile e insieme più
consapevole. E se pur
lui ebbe, più tardi, il suo quarto d'ora futurista, il
futurismo non fu per il Bacci un punto d'arrivo, né una
forma d'arte, ma un modo di
ricognizione di alcune plaghe estetiche perdute di vista,
un'esperienza, i cui resultati non si sognò mai di portare
fuor dallo studio.
Difatti, nel 1919, dopo la guerra (durante quei quattro
anni, se gli eran seccati ben bene i tubetti dentro la
cassetta dei colori, il suo
spirito aveva seguitato a lavorare) il Bacci, tornato a
Fiesole e al suo lavoro, pensò che mentre fino ad allora
aveva fatto della pittura
(pittura, sia pure, convinta e commossa) era venuto il
momento di far dell'arte: - dell'arte in un senso totale e
complesso, quale era reclinato
dall'indole sua d'italiano e dalla propria consapevolezza,
matura ormai, ne' riguardi della storia artistica e
spirituale del suo paese.
Uno scrittore d'arte che non importa nominare, fin dal 1917
aveva scritto: «Si, si abbiamo capito: sensibilità (oh, se
abbiamo capito!).
Ma il mondo, cari signori, è più vasto di quanto non possa
capire nelle vostre retine, nelle vostre narici, nelle
vostre papille.
La natura-morta è l'unità tipica della pittura moderna. E la
natura morta è l'esclusione completa dell'umanità nella
pittura - dell'umanità
come storia e come romanzo. Oggi il paesaggio, il ritratto
tendono anch'essi a divenire natura-morta».
E tre anni dopo, nel 1920: «Un altro elemento deve
riaffermarsi nell'arte: la volontà; ossia il predominio
deciso dell'intelletto sulla
sensività. Fu cotesto il principio animatore dell'arte nelle
epoche più mature di esperienza storica e di pensiero. La
volontà riconduce nel
quadro la composizione - direi quasi la sintassi grafica e
plastica - la costruzione decorativa e architettonica, lo
stile, insomma, nella
sua forma più cosciente e più imperativa».
Anche il Bacci - per conto proprio - aveva meditato su
cotesto problema dell'arte e aveva provato coteste
aspirazioni. In seguito
(ognuno era più o meno stufo dell'anarchia impressionista)
altri si misero su cotesta via. Son nati più tardi le fisime
e i qui pro quo
intorno al nuovo auspicato classicismo.
Bacci è un toscano, anzi, un fiorentino e per quanto la
storia della propria arte la conoscesse a menadito non fu
proprio di li che attinse,
a furia di spolveri e di ricalchi, il suo classicismo. Per
lui il classicismo era una forma mentis, una maturità
spirituale, qualcosa che
aveva bevuto alle sorgenti natie, e gli era entrato
nell'anima per gli occhi a veder Luca, Masaccio, Donato -
gente che, fra parentesi, a voler
esser classici non ci aveva mai pensato.
Ed egli, il Bacci, non volle fare del classicismo, volle
fare dell'arte; dell'arte umana e al tempo stesso euforica,
armoniosa e possibilmente
monumentale; il cui motivo, vale a dire, non s'abbia a
immaginare tagliato nel gesto a squadra da marionetta...
sensibile, delle due mani
- come si usa dai «Kodacchisti» della pittura, ma
incorniciato fra le colonne e gli archi di una nuova gloria
e di una nuova grandezza che
gl'Italiani migliori oggi augurano ardentemente per il
domani della Patria. (Da non confondersi, per carità, con la
retorica patriottarda che
tappezza le due Camere ed altre consimili aule magne).
Nel crogiuolo del suo recente travaglio artistico, il Bacci
ha gettato anche le proprie esperienze e ricerche recenti e
remote (ed altresì
i suoi disinganni e le sue resipiscenze) e ne è uscito una
specie di purificato naturalismo; ossia il natural modo di
vedere e di fare
nell'arte, non già di un parigino villeggiante appena nella
banlieue, o di un barbaro cosmopolita onnivoro, ma di un
italiano consapevole,
che sa trascegliere il proprio cibo spirituale, commosso,
spontaneo, individuale, ma benanche ossequiente alia
disciplina di una grande
tradizione. Della tradizione non accattata per via di
elucubrazioni culturali, ma stabita come legge del proprio
sangue e del proprio cielo.
Ho la coscienza di non esagerare dicendo che con le più
definitive delle opere esposte nella «Primaverile», il Bacci
segna il principio di un
ristauramento dell'arte italiana, intesa come l'espressione
di una civiltà e di una razza in cui le facoltà emotive si
equilibrarono sempre
con quelle razionali e il motto della cui legge e della cui
gloria fu in ogni tempo: «Costruire».
Mario Tinti.
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Opere esposte : |
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1. Il taglio dei boschi a Viricigliata (1919).
2. La piena dell' Arno a Compiobbi (1920).
3. Pioggia di primavera su Monte Ceceri (1920).
4. La Valle del Mensola da Monte Ceceri f 1920).
5. La casa del Mulino nella Valle del Mensola (1921) (appar. alla collezione del dott. Staehelin).
6. I Carciofi (studio di stile) (1921).
7. Vaso bianco (studio di stile) (1921).
8. Le pesche nel foglio (studio di stile) (1920).
9. Le pesche (studio di stile) (1920).
10. Il temporale (1921).
11. La madre [1921) (appar. alla Collezione Vallecchi).
12. Il traghetto (1921).
13. I vagabondi (1921).
14. La sosta (1921).
15. Sull'argine (J921).
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