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(Fonte : Torino - Rivista mensile municipale - 1934)
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Felica Carena nel mio studio
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Tutti via! Manco più i cani a correre di sbieco per gli
assolati asfalti del mio delizioso OltrePo, su cui dilaga
un'ubriacatura di sole agostano. Gigantesco velario di
fresche foreste
contro il fiume; Alpi lontanissime, affogate nella nebbia
lattea della calura; la città è sparita laggiù, dietro la
cortina dei larici. No! Sento le campane stanche del bel San
Giovanni,
le motociclette rabbiose degli spazzini, l'atroce fischio
presuntuoso del trenino di Moncalieri che si porta in
licenza le cuoche e i domestici dai palazzi deserti.
Restiamo in pochi: malati negli ospedali, soldatini nelle
caserme, studiosi melanconici senza famiglia, senza amore.
Pure non abbandoneremmo il fresco folto di tutti questi
giardini
dell'OltrePo, lungo il quale, dalle ville, fiammeggiano
ciocche rosse di gerani di Liguria e stormiscono
capigliature umide di larici valdostani. Torneranno solo a
settembre i torinesi,
divorati dalle mosche e dalle note d'albergo.
Un ringhio iroso di campanello elettrico mi spaura! Signore
che siete nei cieli e voi, cameriera che siete sulla terra,
mandate al diavolo ogni seccatore!
Davanti al tavolinetto della macchina da scrivere, sotto il
sottile vetro, una verdissima scena di pascolo alpino.
Poco cielo, azzurro, si, ma smagrito da un intervento
liquido d'acquaragia strofinata con avarizia; sotto il
triangolino cobalto una passione estatica di linee alla
Segantini: blocchi
triangolari di ghiacci zebrati di strie cinabro, ocra
gialla, viola. Più giù un ondulamento di vallette smeraldo,
rigate di stradine e di ruscelli. Qui, in primo piano tre
larici
corposamente carichi di luce d'oro, balenanti di cadmio. Il
colore vi è sensuale: una "baita" remota sopra uno dei più
lontani dossi è la inerte nota romantica e grigia del
quadro.
A destra, in un cantuccio, scritto in fretta: "S. Moritz,
7-903" e più sotto con lettere franche, staccate: "All'amico
Angeloni con sincero affetto - Felice Carena - 905".
Cosi, Carena è d'improvviso nel mio studio ed il campanello
non ringhia più!
- Tu! Tu! Ma che festa! Che gioja! - Non so più parlare; le
mani contro il petto, fisso lui. Alto, magrissimo, rossigni
i capelli, l'esiguo pizzo sul mento; la faccia scarnita,
divorata
dai sogni è invasa da ondate di efelidi che conferiscono
alla melanconica figura la forma-colore d'un mosaico
bizantino. Profondi e tristi gli occhi azzurri, fermi,
confidenti, sì, che
paiono dirti: Caro!
La bocca carnosa, grossetta; labbra che s'orlano di sangue
come lo spàcco d'una melagrana; tutto il viso angoloso è
pesto da un'insonne inquetudine d'artista. E' Felice Carena
del 1905
vivo, tornante. Penso al volto scabro, angoloso esso pure.
di Masaccio, morto così giovine e così immenso. - Vieni dunque! Oh. bravo?... Ma, dovrei dire: Eccellenza.
Che balzo nel tempo! Che intenerimento di ricordi! Via
Valperga Caluso; brutto, povero studio, al caldo plebeo di
un sottotetto. Pareti nude da cenobio, qualche Tanagretta,
molti numeri
del "The Studio" che allora era la gran voce straniera della
sapienza estetica; due stinti tappeti ed un saccone sdrucito
dalle cui lacerate membra scattava "le crin d'Afrique", a
ciuffi
disperati come la chioma d'uno "scapigliato".
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Lì,
non c'era dunque che la nostra gioventù; io maggiore di
quattro anni, Tu più alto, più grande di molto! Ci univa una
freschissima ammirazione per Segantini; parlavo sempre io,
come
farò oggi; allora era lontano il Pensionato di Roma; lontana
Venezia, la gloria... e... poi l'Accademia!
Terribili giorni d'isolamento quelli; per Te, per tutti noi.
Intorno all'Arte un gran gelo; trascurate le Scuole,
indifferente il pubblico; lo Stato non aveva ne tempo, ne
voglia di
occuparsi d'Arte. La feroce democrazia di un ministro
confondeva in divina ignoranza l'autore di "Giambi ed Epòdi"
con Gabriele D'Annunzio. Più isolato, oscillante, d'ogni
altra regione,
il Piemonte. E Tu? La casa piccola, borghese, vegliata da
quella dolce "Madre" che è stata come una benedizione fra le
tue pitture. É il quadro che più ti lega spiritualmente a
Leonardo
Bistolfi ed a Giovanni Cena. In quel pantàno di scetticismo
politico e religioso "Madre" è stata una seria e taciturna
affermazione di sentimento; è stata come uno schiaffo sulle
frolli
inerzie d'una società positivista. Ojetti vi sentì un
richiamo a Carriere. Ma si capisce: Carriere! - Ne avevamo
parlato a lungo sul sofà scapigliato - Carriere ti era più
vicino di quello che non fosse il senatore
Giacomo Grosso così verista, sensuale, impetuoso, aderente
alla materia, che, quando ancora oggi, guarda una rosa, una
stoffa, un frutto se li ribeve con gli occhi sempre nuovi e
sorpresi del fanciullo. Il mondo, allora, come oggi, è da
lui sentito in blocco, non rinuncia ad uno degli elementi
che esistono, che vede, che conquista con una gioja sensuale
da cui in, discepolo, come Mantegna discorde da Squarcione,
potevi dissentire, ma che un giorno, come il Padovano,
dovrai lasciar filtrare nei tuoi nervi, nelle corposità dei
tuoi colori, nella plastica dei tuoi nudi, nella ghiotta
sostanza delle tue frutta.
Ma, allora, 1900, nell'analisi del tuo spirito, come per
Carrière, ci fu ben altro. Da Wagner a Schopenhauer, al
genio russo era passata una rivolta romantica contro il gelo
del
materialismo. Il culmine della reazione non poteva essere,
per artisti pieni d'anima, che l'isolamento. Nelle nostre
solitudini Tu hai sentito Carriere interrogare liricamente
il futuro,
mentre subordinava la venerata forma al sentimento morale.
Tua "Madre", il "Fanciullo dalla mela verde" furono su
questo binario, meglio su questa vetta. Epperciò la visione
italiana del tuo tema è anche un poco quella che s'illumina
nel quadro
dell'altro, al Lussemburgo.
Oh, perchè non deve essere bello così? Che cioè Tu e
Carrière abbiate vissuto sullo stesso parallelo?
Michelangelo fu un poco come Jacopo Della Guercia; Ribera fu
un poco come Caravaggio;
pure le personalità sono integrali.
Ma ecco; ho fatto un nome che mi dà la gioja di poter meglio
penetrare la tua opera d'artista. E tanto per dire,
rifacciamoci un poco a difendere, se pur n'ha bisogno,
questo Piemonte
pittorico e pittoresco. Quanta gente ha il vezzo di negare
al Piemonte una individualità estetica! Poche regioni,
invece, hanno sentito con tanta inquietudine il tormento
della raffinata
espressione del colore. Già lo rivela il periodo eroico
dell'acquaforte ligure-piemontese del tempo di Rayper e
degli altri "Rivaresi". Esploderà, è vero, nelle pennellate,
allora
rivoluzionarie di Pittara; vivrà per la gioia di Pasini,
s'imporrà come problema di luce in Avondo e nel Ricci; poi
sarà trionfale passione piena di capacità sculturali in
Delleani, o
zoolianamente cruda ricerca nel Pascal, o violenza
mediterranea nelle marine del Corsi, in quasi tutto
Tavernier e del tutto in Cavalleri Vittorio.
Esplode quindi il colore nei tripudi e nei misteri
dell'Oriente pasiniano, negli acquosi pendii biellesi di
Delleani, nella sensualissima forza di Giacomo Grosso. E,
poi, di un altro
pregio bisogna tener conto. La pittura piemontese
dell'ultimo Ottocento, come la pittura toscana del
Quattrocento, ha sentito di dover imparare qualcosa dalla
scultura. Quassù la scultura
tra Otto e Novecento ha avute ore gaudiose. Da Calandra a
Bistolfi a Rubino si può dire che la scultura piemontese,
con le sue evidenze tecniche ed i suoi problemi spirituali
abbia tenuto
il primato nelle arti; ecco perchè la preoccupazione
plastica nella pittura piemontese è logica, particolarmente
nel tempo di cui parliamo, anche a prescindere da suoi
preludii che si
potrebbero benissimo rinvenire nelle tavole di formato
minore di artisti antichi, come Defendente Ferrari; vedi la
sala piemontese della Pinacoteca Reale di Torino.
Ora il Piemonte è lì con i suoi tre C.: Casorati da Novara,
Carrà da Quargnento, Carena da Torino. In tutti e tre un
cerebralismo che li stacca dalla camerata degli anziani; non
dirò qui
della ironia, del senso decorativo in Casorati, nè delle
sintesi di Carrà. Mi preme parlare di Te, dopo questa
parentesi per vedere di costrurre la tua fisionomia estetica
secondo i miei
studi e la mia sensibilità.
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L'ambiente
di Carena anteguerra: raccolto in una piccola casa modesta
dove, l'amore per la Monarchia e per la Religione era in
atto. Soldati: il Babbo, il fratello e più tardi lui
artigliere in linea nella grande guerra. Preghiera: pietosa
cura della Mamma; sacerdote predicatore: un fratello.
Atmosfera affettuosa, vivere modesto di tutti; in quella
vita si matura la
passione del libro, delle riviste belle, l'avidità della
conoscenza, la incontentabilità che lo trae a varcare i
confini del Piemonte e più quello dell'Accademia Albertina,
dove Giacomo
Grosso può condurlo soltanto fino alla vigoria del colorito.
Ma Carena è un meditativo; per questo la compagnia che cerca
è di poeti e di mondi lontani dal suo. Ripenso le
ammirazioni per Burne Jones e più tardi (vedi certe sue
nature morte) per
Cèzanne ma sopra tutto Gaugin e Van Gogh. In lui ebbero
maggiore dominio, anzi predominano ancora, la poesia, il
raziocinio interiore; la pittura dovette essergli mezzo non
fine.
Chi vorrà studiare a fondo Carena dovrà seguirlo salendo
dalle sue conquiste tecniche visibili nelle opere dal 1912
al 1916 alle conquiste etiche le quali (superato il periodo
della guerra
e quello della lunghissima malattia: oltre un decennio
1918-1929) formano tanta parte del suo stile.
A Roma Spadini aveva iniziata un'educazione tutta italiana e
da un pezzo dimenticata: la costruzione del quadro; c'era
nel mondo dell'arte, per pochissimi cuori di avanguardia, il
concetto
che non si dovesse badare tanto alla forma esterna, quanto
invece all'eterno. Salivamo verso la luce della
ricostruzione e non solo politica, militare, industriale,
agraria, artigiana, ma
verso un Rinnovamento che oggi è in atto anche per i ciechi
ed i sordi. Ma il Rinnovamento doveva essere preceduto da
quel malessere di cui, noi, generazione dell'ultimo
venticinquennio
del secolo sopportammo tutte le conseguenze. I giovani,
oggi, hanno trovata "la pappa fatta!".
In quel malessere germinò il senso rivoluzionario che
qualificherà ìl primo Novecento; ormai si aspirava ad un
tempo di Grandezza che l'Ottocento postremo aveva mendicato
presso le
Cancellerie d'Europa e d'America. No! No!
Questo No urlato nella trincea e nella piazza è stato già in
atto anche nel campo della Pittura, sia pure con errori, con
stramberie, ma sempre in funzione di reazione.
Nell'architettura
che è forza collettiva, è più visibile questa battaglia
contro lo staticismo; meno lo è per i profani nel campo
della pittura, che è arte personalissima.
Lo stile di Carena è segnato di questo crudele ed eroico
destino che volle noi anziani più sacrificati e tormentati
nell'assalto al futuro; fummo come i primi dissodatori di
questo
bell'Agro Pontino che domani i giovani mieteranno. A questi
il frutto, a noi la fatica. E sia benedetta!
Il suo dramma spirituale, Carena se l'è portato al fronte,
ufficiale d'artiglieria; poi lo ha divorato in dieci anni di
aspettazione della morte che, per fortuna non venne; donde
quella
inquietudine di stile che Margherita Sarfatti ha con mano
maestra svelata nelle tele del sognatore di Cumiana.
Ecco, Felice Carena, Tu, sei qui, nel mio studio nella
perfetta essenza dei tuoi venticinque anni; inquieto mentre
cerchi con la carbonella la costruzione di un quadro ancora
inerte
sul cavalletto; inquieto mentre discutendo, con un numero
della grande rivista inglese sulle ginocchia, ondeggi fra le
voci che vengono dagli ateliers di Parigi, d'Olanda e quelle
che
richiamano alla tradizione italiana di Caravaggio. lo non ti
so concepire che cosi: Inquieto! Penso che questa sia la
vera forza che ha travagliato e travaglierà ancora, mi
auguro, a lungo
la tua Arte. Chi ha saputo vederti nettamente, chiaramente è
stato un altro artista nuovo: Antonio Maraini; egli dopo
un'acuta analisi di tutti gli apporti del destino alla tua
azione ha
inteso, anzi sentito che in un tempo in cui dura è la fatica
della invenzione artistica, Tu porti nella scuola e nella
pittura la nostalgia della grande tradizione italiana. E la
invenzione
si lega a quella che in Te è la vera peculiarità:
l'emozione, in quanto Tu sei un poeta ed un settentrionale.
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Anelante
desiderio di aderire alla vita che in Te, come in Segantini
è nato nella infanzia un poco chiusa, un poco timida;
bramosia inquieta che sarà tutta la forza e la tragedia dei
migliori. Penso, ancora una volta. a Masaccio; sennonché lui
dovette piegare sotto la forza del suo male a ventisette
anni. A vedere nella cupa chiesa fiorentina il verdastro
tumulto delle
sue tempeste d'uomini che annunciano gli uragani della
Sistina, si pensa subito a questa inquietudine senza sorriso
che sigilla il Poema di quel Sommo.
Ritengo che la tua realizzazione sia stata quella della
espressione; già fremeva nei tuoi paesaggi; ho qui un tuo
studio di Cumiana della tua prima gioventù: tecnica
segantiniana,
soffocato riso di rossi, di verdi; una gioventù che non sa
ridere; tutto è velato di perle violette e grige e su tutto
passa il calar della sera; si potrebbe intitolare: Il Sabato
del
Villaggio, chè anche un lume trapela angosciosissimo dalla
"chiusa bottega" come nel Cani Leopardi. Raduno tutta la
volontà nei ricordi e imagino la tua personalità latina a
crescere come
un pesco ancora gracile tra quella siepe urlante di papaveri
rossi, di fiordalisi azzurri, di grano d'oro che è il
verismo di Giacomo Grosso. Sensualità non tua quella che c'è
ancora nel
colore di "Madre", 1912 (Mostra di Venezia); sensualità di
"Anemoni"; poi passaggio, aspirazione a inserire nella
potenza del colore la virtù della linea che la tradizione di
Giotto
suggerirà sempre agli artisti veri; finalmente il tuo
secondo tempo, ossia il passaggio ad un largo senso
decorativo (Torino, 1919, "Contadini nel sole") e poi,
ancora, qualcosa di più che
cercherò di illustrare. Ero partito da Caravaggio: la sua
"Caduta di San Paolo" - la tua tela "I pellegrini di Emmaus".
Io vedo: verticale il primo, orizzontale il secondo, tanto
logico
Caravaggio per esprimere un cadere dall'alto con una
verticale, come Tu per esprimere una sosta con la linea
orizzontale. Abile intuizione d'entrambe; in Caravaggio
movimento, in Te la
stasi del riposo alla mensa. Lo stesso "perchè" luministico
del cavallo che però in Caravaggio fa tema essenziale, così
che non interessa la caduta del Santo, ma il volume ed il
colore
della bestia.
In Te invece il cavallo egualmente plastico e vibrante di
luce compone meglio ed è meno prepotente; Tu più moderno hai
superato l'intuito decorativo, hai voluto darci l'assorto
librarsi
di un pensiero religioso su quelli uomini raccolti a mensa
nella grande ora. Il magnifico gioco della luce invade da
sinistra a destra la tela, crea l'ambiente rurale, con la
tavola di
tralice, la bottiglia, i pani, il piatto, ma più le quattro
figure dei Pellegrini e tutto che vien fuori senza lenocinii,
con una religiosa nudezza, senza aggettivi, senza
superfluità,
quasi abbia voluto castigare il tuo spirito, costringere la
tua capacità a dire con la sintesi più scabra ed essenziale
il sentimento che domina tra grandi ombre e luci la stalla.
Composizione
dunque che pare nostalgia dei tempi in cui il comporre fu
oceanica virtù dei colossi da Giotto a Tintoretto. Nudo come
un Del Castagno e scabro, luminoso come un Caravaggio,
intimo come un
Chardin.
Dal sensismo coloristico sorseggiato alla scuola di Grosso
(penso il "Ritratto di Sacerdote" 1912) sei asceso fino alla
"Susanna" del 1924, fino a "Serenità" della XV
Internazionale
veneziana del 1926 ed alla "Scuola" del 1927. Ed anche in
questa opera che è stata Premio Carnegie del 1929 l'amore
della grande composizione è seriamente sentito con
aspirazioni alle
celebri scene trasversali di Goya e certo con il miraggio
inequivoco dell'immortale Rembrandt. (La lezione di anatomia
del professor Tulp, Museo dell'Aja). E ricollochiamoti
dunque subito
dopo il meraviglioso Seicento, dopo Michelangelo Merisi da
Caravaggio, dopo la grazia estatica delle composizioni di
Furini. In questi ("Ila e le Ninfe" in RR. Gallerie di
Firenze) un
periglioso avviarsi verso le eccessive emotività del
Settecento; in Te, o Carena, le figure ignude di "Serenità"
affermano una salvezza ritrovata nei valori pittorici. Manca
solo una delle
forze eroiche della pittura conquistata da Tintoretto: il
moto. Ma già vive il preludio che sarà forma ed emozione
italiana.
Le ultime cose di Carena paiono opera di uno spietato
filosofo; spietato con sè; trasceso ormai nelle regioni
iperboree del puro spirito. Il grande ideale a pena
abbozzato allora, in via
Valperga Caluso, o Carena! Ed eccoti qui, nel mio cenobio
deserto, ardente di lavoro, assente quasi dal mondo, eccoti
qui, ancora tutto rossiccio, pallido. magro, inquieto. Nel
profondo
sorridere, a sommo delle tumide labbra rosse, come lo spacco
d'una melagrana ferita dal vento e dal sole di Liguria mia,
erra sempre, ancora, il fascino amaro e tremendo di quella
"Non
vista e non intesa" che già allora veniva a baciarti nello
studio squallido: la Gloria! (i).
(i) Scritta qualche mese prima della
Esposizione di Venezia esprime un vaticinio che oggi, nel
trionfo veneziano, è realtà raggiunta.
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Italo Mario Angeloni |
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