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(Fonte : La Fiera Letteraria - nr 18 - 3 maggio 1953)
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Massimo Campigli - Il silenzio del pescatore Difficile farmi ubbidire dalla mia pittura
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Non sono in buoni rapporti con la mia pittura. Non voglio solo
dire quell'incontentabilità frequente tra gli artisti.
Almeno fra quelli come si deve. Voglio dire che conosco
della mia pittura solo i difetti. E ne soffro.
Mi è difficile farmi ubbidire dalla mia pittura, non riesco
a influenzarla che poco a poco. E poi esasperante che per
colpa di questa inubbidienza, quando eccezionalmente il
quadro riesce bene, resto con l'impressione che non sia
merito mio.
Quel che faccio lo sento sempre imposto da qualcosa di più
forte di me: o sono regole d'arte alle quali devo piegarmi
perchè le adottai nei tempi della mia formazione, oc'è
l'influenza di opere che ammiro e che vogliono lasciar più
traccia di quel che non vorrei, talvolta sono abitudini che
non riesco a sradicare, di certi contorni ai quali sempre
ritorno a mio malgrado,
e soprattutto c'è l'influenza di mie manie che risalgono
alla mia infanzia, che trovano sempre il modo di
intrufolarsi nel mio lavoro. A me non resta che ubbidire a
tutti questi mestatori, disapprovare e sperar bene nel
prossimo quadro.
C'è per esempio quell'area di museo che si respira nei miei
quadri. E' la più grave delle mie debolezze. E' urgente che
me ne liberi.
I musei in genere, antichi s'intende, esercitano su di me un
fascino enorme fin da quando ero bambino. Chissà cos'è ! La
solennità, l'immobilità, il sentirsi fuori del mondo reale
(ho sempre aborrito il mondo reale). Al museo tutto è vivo
(o magari morto) in un modo singolare. Ma è meglio dire la
cosa con semplicità: io da bambino al museo mi innamoravo.
Il ricordo di cose antiche nella mia pittura non è
estetismo, ma una cosa su un tutt'altro pianeta.
Facendo risalire la particolarità della mia pittura alle mie
tendenze rispondo implicitamente al tema che dovrei
svolgere: quale sia la mia posizione di fronte alle tendenze
della pittura moderna.
Non assumo una posizione polemica, riduco tutto ad un fatto
personale. Non appartengo a nessun movimento. Non me ne
vanto. Come non mi vanto dei miei rapporti con la realtà
della vita che sono distanti per non dire associali. Non me
ne vanto, soffro di una perenne nostalgia per una comunione
col mio prossimo. Potessi vincere le mie inibizioni! Potessi
rompere la prigione che mi sono fabbricata, potessi condurre
la mia pittura dove intendo, guidarla, non seguirla.
Non sta a me decidere che cosa ci possa essere di
interessante nella mia pittura, se sia magari la parte che
vi hanno appunto i tic personali, l'elemento psicologico che
vi è senza che l'abbia voluto, anche se me ne rendo conto a
lavoro compiuto, o se non siano piuttosto le qualità
pittoriche o almeno decorative. Del primo è più facile
discorrere ma forse sono le seconde che importano appunto
perchè è più difficile dirne qualcosa di brillante.
Io parto quasi sempre, nell'invenzione di un quadro, da un
geroglifico geometrico, quadrati e tondi che vengono fatti
di istinto. Di un tondo posso provare a fare la testa di un
personaggio oppure il torso mettendovi sopra un'altro tondo
non si sa se diventerà spalle o cappello. C'è sempre una
forma a otto che mi vien fatta e che può diventare un busto
a clessidra o anche testa e scollatura. E due otto si
possono accavallare: uno diventa testa e scollatura, l'altro
spalla e anche.
E attorno alla testa farò il giro del cappello e attorno al
corpo il giro delle braccia. Io compongo il quadro con
grande cura ed è questa la parte del lavoro che mi dà il
maggior diletto. Vorrei che il quadro arrivasse a una
perfezione formale che appagasse sensi e spirito tanto da
poterci vivere assieme pacificamente.
Si tratta di un oggetto sul quale gli occhi dello spettatore
si poseranno giorno per giorno sia pure distrattamente ma
gli occhi cadranno sempre, sino all'esasperazione, sul punto
debole, sul difetto di composizione, sul tono errato, con la
voglia di correggere, di spostare qualche cosa, come quando
a tavola non si può fare a meno di perfezionare la
disposizione parallela delle posate.
Qualunque sia il contenuto lirico di un quadro, la
perfezione formale è la condizione della sua vitalità.
Vorrei con le mie composizioni afferrare l'occhio dello
spettatore e accompagnarlo in giro per il quadro per dritte
e per curve e angoli rispondenti e felici incroci. I fili
che traccio in tanti quadri guidano anch'essi l'andirivieni
dell'occhio.
E quando faccio figure abbinate e somiglianti tra loro
ottengo un risultato dello stesso ordine: l'occhio è indotto
ad andare e tornare da una figura all'altra per
confrontarle. Come un pendolo. Vorrei coi miei quadri si
potesse convivere come con un lento pendolo silenzioso.
Se poi quello che conta fosse l'elemento psicologico del
quadro, niente è più favorevole perchè il subcosciente si
manifesti, che lavorare assorbito in problemi puramente
tecnici quasi per distrarre la mente. Seurat che tanto
ammiro ne è un buon esempio. Credeva di essere un gran
divisionista e, tutto intento a far girare le sue forme a
forza di puntolini, non s'accorgeva di fare opera di stile.
Io credo che il mondo lirico della mia pittura si sia
realizzato proprio per merito dei freni che ho a lungo
imposti alla mia fantasia. Credo insomma all'utilità nella
creazione artistica di quel che in artiglieria si chiama un
falso scopo, un'intenzione che distragga e tenga occupata
l'intelligenza.
A me le idee si avvicinano leggere e furtive come i pesci al
pescatore. Imito il silenzio del pescatore. Ma questa
immagine non vale, perchè il pescatore deve stare attento e
le idee invece mi vengono quando sono distratto. Viene poi
da pensare al pesce trionfalmente strappato all'acqua,
mentre io le idee bisogna che le coltivi che le lasci
crescere con una pazienza da la quale piuttosto che quella
del pescatore, è quella del giardiniere.
Tanta prudenza, poi, è anche la conseguenza di quella
tendenza al dubbio che va di pari passo col procedere degli
anni dell'esperienza. Mentre per i giovani tutto è bianco o
nero. Così nel fare e disfare vado oltre quello che sarebbe
ragionevole. Per il gusto di sperimentare ogni possibilità
anche in una composizione che mi soddisfa così com'è, non
riesco a trattenermi dal cancellare e rifare sulla stessa
tela delle combinazioni che sarebbe mille volte meglio
provarle su un'altra tela e farne una variante.
La mano che sta benissimo dove l'ho dipinta bisogna che
provi a metterla più su, più giù e una testa di fronte non
resisto a non provare a farla di profilo per poi tornare a
farla di fronte.
Ma tutto questo serve almeno a produrre quella materia
tormentata che è la mia. Ma è un vizio come quello dei
solitari a carte. Prova di qua, prova di la. Anni fa, a
tempo perso, ho inventato anch'io un solitario che soppiantò
a lungo la mia abitudine degli scacchi. Si trattava di
mettere in ordine delle carte allineate in disordine, la
stessa carta doveva passare dai posti più diversi per finire
al suo posto predestinato.
Un errore rovinava tutto. Ne ricavai un enorme piacere (ma
non riuscii mai a insegnarlo a nessuno tanto era complicato)
e fu un piacere molto simile a quello che ricavo dalla
composizione di un quadro, un piacere che mi pare illustri
abbastanza bene lo spirito di gioco serio al pari di un
lavoro che interviene nella costruzione dei miei quadri.
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Scrupoli di Campigli Nostalgia delle "storie" dell'infanzia
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Da bambino m'innamoravo insaziabilmente come un
collezionista maniaco. Preferivo le donne dei miei libri
illustrati, quelle di marmo dei giardini, quelle dipinte che
vedevo riprodotte nei negozi sui lungarni e che ogni giorno
sulla via di scuola passavo in rivista febbrilmente con
l'angoscia che ne mancasse una all'appello. Per quelle
dipinte nelle chiese o agli Uffizi ero più tranquillo, di
ritrovarle, prigioniere com'erano, al loro posto. Mi
inquietavano quelle donne meno di quelle vive, ma anche
quelle osservavo attentissimo, me ne imprimevo in mente ogni
particolare, soprattutto degli ornamenti (avevo la mania dei
gioielli). E tutte queste le imprigionavo poi in un mio
serraglio immaginario e diventavano personaggi di lunghe
storie che raccontavo a me stesso o per meglio dire vivevo
in loro compagnia. Queste storie me le ricordo
perfettamente, molto megio dei luoghi e delle persone della
vita reale, anche perchè me le ripetevo infinitamente, con
l'esattezza che i bimbi esigono nella ripetizione delle
storie. Il piacere della ripetizione lo trovo tuttora: amo
rileggere certi libri molto più che leggerne di nuovi. Non
che fossero storie molto peregrine. Ne racconterò una, che è
quella alla quale poi sono rimasto affezionato più a lungo,
che per anni ho elaborato e aggiornata. (E se la racconto è
perchè, come si vedrà subito, aiuta a comprendere tanti
aspetti della mia pittura). Avevo immaginato, avrò avuto
otto anni, uno sfarzoso palazzo orientale nel quale ero
maragià con un gran numero di sultane. (Ero rimasto
impressionato nel sentire, da quel che diceva una canzone
che si cantava per le strade. Che Abrul Hamil aveva
cinquecento donne. Nel mio harem però non andai mai oltre la
dozzina, rinnovabile).
Questo palazzo era costruito a chiocciola, non voglio dire
come una scala a chiocciola, ma tondeggiante come una
chiocciola, come una cupola, attorno alla quale si snodava
una sequela di stanzette, un po' come palchi in un teatro,
con un punto centrale dove, in un'alcova dalle pareti
traforate, giocavo io con una favorita. Le stanzette erano
occupate ciascuna da una, due o tre di queste mie sultane o
schiave, che vi passavano beati ozi, tutt'al più occupate a
interminabili toelette, a pettinarsi e adornarsi; o a giochi
fanciulleschi o a lavoretti muliebri. Questo piccolo mondo
viveva e parlava nel modo più vero, si interessavano
intrighi e passioni, taluna si inalzava ed era adorata,
tal'altra era punita crudelmente. Ma di veramente sessuale
non succedeva mai niente. La mia "innocenza" era completa.
Io sesso non ero affatto il protagonista di queste storie,
osservavo presente e assente al tempo stesso,
immedesimandomi piuttosto nelle mie recluse. Tanto assente
che non pensavo nemmeno a costumarmi in immaginazione in un
modo piuttosto che nell'altro, io che amo tanto il
travestimento, l'oriente e i gioielli. E chiaro che con
questa minuta descrizione io alludo ai soggetti dei quadri
che dovevo dipingere tanti anni dopo. Tutte quelle fantasie
hanno lasciato qualche traccia. Due donne in intima
conversazione che si vestono a vicenda, che si pettinano,
che cucinano vicine, sono tuttora per me la più soave delle
visioni. E a tanta gentilezza sempre si mescola, senza
contraddizione, la visione "soavemente" sadica che siano
chiuse e isolate nella stanza, strette nei vestiti, legate
col filo col quale cuciono.
Credo che sia ormai chiaro di dove mi viene quel bisogno di
incorniciare e rincorniciare nelle mie composizioni i busti
e le teste, di metterle in scomparti e cassettoni col
pretesto che sono a teatro, chiuse nei palchi a coppie, o
che suonano e cantano dietro a leggiio allineate in platea,
oppure sotto l'ombrellino una di qua e l'altra di là
dall'asta che già indica per me lo scomparto. Queste donne
nel tempo stesso han da essere misteriosamente unite e
separate. Persino il braccio alzato contro il sole già
costituisce un tettino, come l'ombrello, che isola e
racchiude, tal quale come quando il braccio di una delle
donne passa davanti al collo o alla vita dell'altra e
"taglia" la testa o il busto. Le stesse collane no n per
nulla sono spesso disegnate orizzontalmente e si prolungano
nelle modanature dello sfondo per completare la
incorniciatura della testa, o tagliarla se si vuole. Quanto
alle donne che dipanano la matassa che esistevano già nel
mio palazzo a chiocciola e poi non solo in quadri recenti ma
anche nei primissimi che dipinsi, derivano dal ricordo di
avere io stesso tenuto più volte la lana per mia madre; non
solo devo essere stato sensibile al simbolo delle mani
legate, ma anche a quello dell'attenzione che occorre per
assecondare chi fa il gomitolo e che mette in uno stato di
servile dipendenza. C'è lo stesso sottinteso (ma di tutto
questo m'accorgo solo dopo l'invenzione del quadro, non è
mai cosa premeditata) quando dipingo una donna che posa per
una pittrice, che accompagna una cantante al piano, che
porge la testa alla pettinatrice, che pazienta sotto le mani
di chi veste e - tanto più - quando si fa serrare il busto.
Con un'intuizione stupefacente Jean Paulhan (in un saggio
pubblicato dalla Fiera Letteraria, nella traduzione di
Gianna Manzini) parla non solo delle mie "prigioniere" e mi
descrive come un'ape che fa il suo bottino quotidiano di
donne e le chiude nelle celle dell'alveare - e né a lui né a
nessun'altro avevo raccontato la storia del mio palazzo a
chiocciola - ma scrive "Deve trattarsi di un sogno infantile
rimaneggiato senza cessa, aggiungendo ogni sera alla
collezione le captive della giornata". Possibile che tutto
ciò sia tanto leggibile nei miei quadri ?
"Succede - egli scrive - come nelle serie delle tessitrici,
che la prigioniera tesse da se la sua prigione". (Quei
piccoli telai che dipingo spesso sono ispirati da quelli,
strettissimi, delle trecciaiole di Firenze che fanno, o
almeno facevano quando ero bambino, la treccia per la
confezione dei cappelli. Paulhan nota anche una costante
della quale non m'ero accorto: dei contatti che sempre
esistono tra le mie donne, particolarmente quelli più
misteriosi perchè indiretti costituiti dai fili che corrono
tra l'una e l'altra(matassa da dipanare, giochi col filo,
diabolo) o dai capelli delle pettinatrici o dalla palla che
viene e che va tra le giocatrici. Io aggiungerei tra i
contatti a distana il guardarsi dei profili. E già l'essere
in due.
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Massimo Campigli |
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