Pillole d'Arte

    
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(Fonte : Dedalo - Rassegna d'arte,1921-22)

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GIOVANNI COSTA

 
Ci siamo ingegnati, discorrendo con qualcuno della famiglia, tanto divota delle memorie del suo Nino, e con quelli, come Cesare Pascarella, che conservan più gelosamente le tradizioni della vecchia scapigliatura romana, di saper qualche cosa di nuovo, e di più esauriente, intorno ai punti capitali della carriera artistica del Costa che sono l'incontro, all'epoca della formazione, con Jean-Baptiste Corot all'Ariccia, eppoi con i pittori del gruppo di Fontainebleau. Ma non siamo riusciti a cavarne più del solito sentito dire e di quanto la Rossetti-Agresti consegnò nel suo libro con la generica diligenza d'un cronista coscienzioso, ma senza quei particolari rilievi e quelle insistenze, che non ci avrebbe lasciati desiderare un scrittore alla Vasari o alla Fromentin, capace di coordinar l'interesse biografico al problema dell'arte.

Contentiamoci dunque di ricordare che Giovanni Costa nacque a Roma nel 1826 e ricevette una buona educazione classica nel Collegio di Montefiascone e poi nel Collegio bandinelli; che iniziò gli studi col Camuccini; s'iscrisse nel '47 alla Giovane Italia, e partecipò alla difesa di Vicenza e a quella di Roma; che dopo il '49 riparò all'Ariccia dove cominciò a lavorare sul serio; partecipò alla campagna del '59; e nel '62 fu a Parigi ed a Londra. Tornò poi soldato; fu a Mentana, e, nel '70, fra i primi a entrare per la Breccia. Soggiornò ripetutamente in Inghilterra. Fondò la In Arte Libertas, raccogliendosi intorno il Cellini, il Coleman, il De Karolis, il Sartorio. Morì il 31 gennaio 1903 a Marina di Pisa.  
Quanto alla critica, la prima grande Mostra delle opere del Costa, a Roma, nella primavera del 1921, doveva sorprenderla in una disposizione piuttosto curiosa. Già da qualche tempo l'epoca, diremo così, dei leoni aveva accennato di voler svoltare in un'epoca di Frati. La vocazione del disordine e dell'avventura cedeva, come è noto, a un'aspirazione di disciplina e morigeratezza. Tutti i barometri del mondo, almeno nei riguardi delle cose dell'arte, si trovavano d'accordo nel marcare un clima trattabile e dolce. I più arsicciati vascelli-fantasma in fretta e furia disarmavano; e uscivan con nuove candide velature di barche da pesca. L'ombre del conte Perticari e di Basilio Puoti si trovarono a moderare con gracile ferula scolaresche di contriti buccanieri. Ritornavano tempi favorevoli alla considerazione d'un'arte di studio e di tradizione. E il tradizionale, forse, stava per venir apprezzato più del nativo e germinale; e lo zelo più del talento.

Nel suo aspetto d'artista sviluppatosi attraverso l'investigazione degli stili più disparati e anche avversi, Nino Costa assunse, dunque, per una stagione, il significato d'un simbolo, d'un ammonimento. E sebbene l'eloquenza degli esegeti diventasse un po' confusa, quando si trattava di illustrarci quel che il pittore romano aveva sostanzialmente e definitivamente realizzato, è certo che intorno a lui s'accentrò quasi tutto l'interesse e il consenso, e non è a dolersene, poichè alla lunga e ingiusta dimenticanza non poteva in qualche modo ripararsi senza un lieve eccesso d'infatuazione. Nè si vuole affermare che ci fosse anche un desiderio di portar con qualche solennità un nuovo e bel nome su quella lista d'artisti laziali che, da Antoniazzo al Pinelli, nei secoli ubertosi come nei secoli magri, rimase sempre piuttosto spopolata.
Ma accadde che, nelle sale prossime alla sala del Costa; e nel confronto di quella studiosità insoddisfatta e quasi acre, fin la inesauribile felicità del Fattori apparve, non già diciamo sospetta, ma forse un po' ripetuta, e troppo scorrente. E si volle insistere principalmente sugli obblighi che il livornese aveva avuti, e ben riconosciuti, verso il romano; e la pienezza di Fattori, che vigoreggia da una sensibilità tanto schietta, ci venne sopratutto offerta come fausto portato degli insegnamenti di Nino Costa. Il modo della celebrazione del Costa, era stato, tuttavia, indovinatissimo, toccando della natura essenzialmente critica di questo pittore, e della sua funzione di ponte di passaggio fra l'Italia e il resto d'Europa. Una minor persuasione si riferisce agli sforzi per rifondere in aspetto istintivo e unitario la sua produzione, multiforme e d'un carattere contraddittorio almeno nei saggi più elaborati.

Ma quando si pensa ch'egli si conquistò, a uno a uno, tutti i trapassi dalla retorica d'un Camuccini appunto all'arte di un Fattori, per giungere, di costì, attraverso apparenti pervertimenti come quelli della sua sorda crisi preraffaellita, a posizioni che son press'a poco le stesse sulle quali ottimi giovani oggi stanno accampati, allora i cinquant'anni della sua fatica trovano piena giustificazione, anche soltanto in questo merito che dicevamo, di sperimentatore e di "martire". Un paragone con Henry Matisse è paradossale, ma più in apparenza che nel fatto, considerando che in una tradizione pittorica come la francese, la quale, da tempo aveva ripreso intiera coerenza e lucidità, Matisse poteva scapricciarsi, libero, secondo ogni stimolo dell'intelletto e del temperamento; mentre Nino Costa, sulle scoperte della sua coltura e del temperamento, veniva prima di tutto, ricostruendo, per sè e per gli altri e sa Iddio con quanti pentimenti, falsi progetti e imani fatiche, l'edificio tradizionale.
Maggior pregio, insomma, per l'italiano. Ma entrambi saranno inscritti nel martirologio pittorico. Una raccolta complessiva delle opere di ciascuno dei due, offre, ad un modo, un'impressione più animosa, e perfino febbrile, che salda e sicura. Si errerebbe pensando che i loro quadri sieno soltanto dimostrazioni. Ma anche davanti alle loro più belle trovate non si riesce sempre a sottrarsi al sospetto d'una preoccupazione sperimentale. Rapallo, di Nino Costa, con i suoi incontri d'arancio e malachita, è prezioso e vibrante almeno quanto le più belle tavolette di Fattori; con qualche cosa, tuttavia, d'arso e di trapassato.

"Un artiste"
, scriveva acutamente Matisse (Grande Revue, dec. 1908), "doit se rendre compte, quand il raisonne, que son tableau est factice; mais quand il peint, il doit avoir ce sentiment qu'la a copié la nature". E guai allo stile d'un'opera, se nell'opera si sente, distaccatamente, uno stile! Se l'opera non è realizzata in assoluta identità di natura e d'arte!
Ora nel Costa è palese che la natura, cioè a dire l'emozione diretta, fu men sommaria ed ingenua di quanto, per esempio, appaia nel bozzetto delle Donne che asciugano il granturco (1852). E si separa e quasi galleggia, in cotesto bozzetto, come, altrove : in Frate Francesco (1883), e nella Ragazza di Capri (1875), ecc., ecc., un'apparenza pupazzesca, oseremmo dire e non con irriverenza; e l'opera interessa, sì, il ricercatore di belle intenzioni stilistiche, ma manca, per lui e per tutti, d'una forza di convinzione più profonda. Perchè c'è l'errore del realismo e naturalismo greggio, che pretendono offrire l'opera d'arte senza l'elaborazione d'arte. Ma c'è anche, e non meno pericoloso, l'errore che potrebbe chiamarsi arcaistico, il quale consiste nell'astrarre gli schemi architettonici dal controllo dell'emozione diretta; e per una critica che voglia badare oltre le preoccupazioni del quarto d'ora, non ha la minima importanza che oggi si sia meno suscettibili nei riguardi di quest'errore che di quello. Sicuro : senza un principio architettonico non esiste opera d'arte. Ma d'una semplice struttura architettonica son fatte, e forse non in tutto, appena le opere dei primitivi, le quali non si propongono che di trasmettere suggestioni jeratiche. Ma si sa cosa sia l'jeratismo degli artisti, nelle epoche mature e riflesse, anzichè rudimentali e primitive. Nè più nè meno che l'abbietto realismo, quasi sempre: letteratura.  

 

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