Pillole d'Arte

    
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(Fonte : Dedalo - Rassegna d'arte, 1921-22)

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GIOVANNI COSTA

 
Forse il Carro con buoi, nella pennellata meno felice di molte altre tele del Costa, è più vicino, giacchè vien ricordato il Corot, a quel rarissimo equilibrio d'immediata emozione, e d'ordine intellettuale, che trionfa nei Paysages d'Italie come in poche altre cose dell'arte moderna. Ma nei Cappuccini d'Albano, l'ispirazione e la maniera, impetuosissime, danno nel romantico. Col Toro bandito si ritorna, senza dubbio, a un altro dei momenti più pieni di questa pittura; e nessun critico, credo, vorrebbe esser così fastidioso da sostenere che l'episodio dello stagno che rispecchia il gruppo di querce e il fondo d'aria, mette nella costruzione un elemento in qualche modo artificiato. La tonalità potrà esser definita romantica. Ma è tanto virilmente tenuta, che resiste sotto la più lunga attenzione. Come non accade col Lago di Nemi, più incidentale e sazievole; e non parliamo di altri piccoli paesi, di diversa cronologia, addirittura gretti d'ideazione e fattura, come quelli d'un dilettante.  
Perciò è strano che in questo artista, sempre presente a se stesso e sempre insoddisfatto, la cronologia non ha a che vedere, per quanto poco rigorosamente, con il maggiore o minore accostarsi della produzione alla pienezza espressiva, e a volte si direbbe con lo sviluppo stilistico. Da un capo all'altro, l'opera del Costa è tutta scatti e sorprese, nei riguardi del resultato come in quelli dello stile. La Barca è del 1850; e la Leda del 1900; e fra le due date è un continuo alternarsi e smentirsi d'opere vivaci come quella, e sconfortanti come questa. Un possesso più uniforme il Costa l'ottenne in una maniera di paesaggio non più armonizzato sull'esempio del Corot delle cose italiane, e cioè il massimo, ma del Corot più tardo e indeterminato, e dei paesisti veduti in Inghilterra: Corot sopratutto pel modo di scompartire; e Bonington, Constable, ecc., per il richiamo realistico, nel Corot ormai sfumato tra nebbie e mitologie. Nell'Arno a San Rossore (1895), e nel Risveglio (1896) che si trova alla National Gallery di Londra, sembra poter riconoscere due fra i più nobili esemplari di questa forma, che, nelle Donne sulla spiaggia d'Anzio (1852) della Galleria Nazionale romana, e nelle Ladre di legna (1865), è ancora trattenuta sull'aneddoto e intesa limitatamente. Varie opere di questo tipo, con l'esclusione delle citate, non ho potuto vedere nell'originale; e può darsi che, avendo potuto vederle tutte fino a una, il discorso sarebbe uscito un po' diverso.
E, in parte, i successi del Costa, o almeno i più riconosciuti, stanno in lavori di quest'ordine. Egli non era pittore da accettar compromessi; benché ci sien compromessi che finiscono col risolversi utilmente per un artista. Ma non si può ritenere che, in opere come Il Gambo, Il Serchio e le sue ninfe, L'Arno a San Rossore, Risveglio, ecc., ecc., lo vedremo tutto sfogato, da non dover ricercare tracce almeno altrettanto importanti della sua sensibilità e del suo spirito di ricerca, anche in lavori cui sembra non avere arriso nessuna buona stella. Equlibrati, pacifici, aperti, quei paesi ai quali la fama del Costa generalmente si raccomanda, ci dànno di lui una nozione meno intensa, e vorremmo dire distante, e quasi velata. Il problema costruttivo, più che un problema veramente architettonico, sembra costì essere stato una questione di aggiustamento. Il colore ha una qualità più armonica e diffusa, assai meno acerba ma anche men personale che altrove. Si rientra, con tali opere, in una forma di paesaggio internazionale, che si riprodusse e seguita a riprodursi, con differenze trascurabili, in Francia, in Olanda, in Inghilterra e da noi: fusione, appunto, di Corot, di Constable, dei maestri di Fontainebleau; macchina a pareti mobili, dentro la quale, con un po' di studio, possono accasarsi tutte le sensibilità, e giuocare tutti i temperamenti.
Che se in tali opere il Costa si fosse sentito attuato, non gli si vedrebbe, nello stesso tempo, tentare tante altre avventure: quelle, per esempio, dei ritratti (non alludiamo al cosidetto Autoritratto della mostra romana, che è, invece, un ritratto dipintogli dal Richmond); nei quali egli si esprime con una visione tutta diversa, ritrovata in parte sui nostri quattrocentisti e in parte sui preraffaelliti, ma fermandosi avanti la maniera a grande ombra del Watts: lavori amorosissimi, ornati di successi parziali, e nei quali, specie nel Ritratto della raccolta Sernicoli, la passione dell'artista vibra con un'acutezza dolorosa, senza pur condurci ad una fede sicura nella realtà della rappresentazione.
Nell'intricato mistero d'una consapevolezza che sembrava destinata a non poter mai rifondersi in facilità ed istinto, è sepolta la causa dell'insoddisfazione, anche davanti a cotesto Ritratto, e all'altro Ritratto d'una figlia (1882), di poco inferiore. L'acrità della ricerca figurativa sorpassa la forza della visione ; e il prodotto, al solito, si scinde e scorpora; e ciò che se ne distingue, sopra la visiòne che Costa intendeva oggettivare, è Costa stesso con le sue nobili ma tormentanti e contraddittorie preoccupazioni d'arte. 

Nè, così, giova seguirlo nella Via Crucis dell'elaborazione lunghissima di Ad Fontem Aricjnum (compiuto nel 1896), che fu definito bene dal Maraini, come la conclusione preraffaellesca d'un progetto impostato, qualche decennio prima, sotto la suggestione di Poussin. Non son pitture, quanto repertori di pitture, stratificazioni geologiche di tutti gli stili, interessanti nell'aspetto culturale, ma senza splendore d'arte. Non è molto diversa l'impressione che si riporta da certi prodotti della nuova scuola neoclassica, nei quali lo schema stilistico stringe le forme come una gabbia o un cilizio. Anche la Ninfa del bosco (cominciata nel 1862, attendendovi l'artista fino, si può dire, al girono della morte), è una gran battaglia campale più che una grande vittoria. Certo, nell'arte italiana moderna, nessuno si propose, non Fattori, e non Segantini, qualche cosa di tanto alto. E se ripensiamo ai vasti paesaggi: il Risveglio, il Gombo, ecc., dove il primo impeto impressionista e macchiajolo, s'è trasfigurato attraverso Corot, si può dire d'avere ormai una figura umana fatta per abitarli: che non eran certo le figure dei ritratti, nè quelle aggruppate intorno al fonte d'Ariccia.
Quanto il Costa poteva ottenere in fatto di grazia, nella Ninfa l'ha ottenuto, nonostante, anche costì, la macchinosa incubazione. Si dice fra l'altro, che le più belle donne di Roma non rifiutarono di prestare, e tornare a prestare inesauribilmente le loro gambe, per modello alla Ninfa; e la nobiltà dell'artista era tale da rassicurare anche il più geloso pudore. La volontà dello stile mette un che di fisso nel modellato delle carni, e raffrena il colore in una gelidità fra marmorea e madreperlacea. E si scopre anche più nel partito di contrasto con la sorda massa di pietra, a lato della donna; contrasto spazialmente troppo insistito, ma che, nella pietra, offre motivo a un bel pezzo di pittura; mentre per lo sfondo alberato e il terreno non par possibile dire altrettanto.

Non insomma un'opera che valga per sè sola il nome dell'artista. E il nome è e rimane più di ciascuna opera e di tutte le opere insieme; e non ingiustamente, perché, s'è detto, è quello del pittore che primo, al suo tempo, tornò a possedere un senso genuino ed austero dell'arte, e con una ricerca interrotta soltanto dalle cure della patria, cercò di ingagliardire cotesto senso portandolo a contatto con le forze, allora quasi ignorate, dell'arte europea, e di dargli una base tradizionale. S'è esagerato dicendo che il Costa creò artisti come il Fattori, ai quali, in realtà, non poteva offrire che un sussidio ragionativo. Ma non si saprebbero esagerare l'importanza sperimentale e i veri successi della sua arte; nè la precocità dei tratti critici sparsi nelle sue lettere, nelle conversazioni, e negli articoli della Gazzetta d'Italia (1883), ecc., ecc.

Una pubblicazione che radunasse questi scritti, sarebbe un opportunissimo omaggio alla sua memoria. Può darsi che, specie sul tardi, coll'illanguidire della vena, un poco perdesse tempo, come dicono, "pontificando"; ch'è il pericolo dei temperamenti a tendenze teoriche e didattiche. Fatto sta che pontificava sull'ottimo degli argomenti: la santità dell'arte; e la sua prova personale, d'altronde, l'aveva compiuta.

Gli scolari diretti, limitandoci ai più noti, ciascuno si misero davanti uno dei vari aspetti della sua pittura: il Sartorio, rifacendo nella Gorgone la Ninfa, e poi la maniera dei paesaggi mediani; il de Karolis prediligendo invece l'aspetto preraffaellesco, per incastrarvi più tardi Michelangiolo; Marius Pictor riportando la macchia nei suoi smalti romantici; tutti, per dire il vero, con una certa rinchiusa professionalità, assai distante dall'ardente spirito di ricerca del vecchio Nino.

 

 

EMILIO CECCHI                   

 

I dipinti qui riprodotti dei quali non è indicato il proprietario, appartengono alle figlie del pittore: sig.re Giorgia Guerrazzi e Rosolinda Lemon.

 


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