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(Fonte : Dedalo - Rassegna d'arte, 1925-26)
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Ritratti dipinti da Giovanni Fattori
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Giovanni Fattori nacque a Livorno un secolo fa. il 6
settembre del 1825. Morì a Firenze il 30 agosto del 1908. Si
può ripetere di lui quel che il Carducci ha scritto
nell'epigrafe deIlo scultore Adriano Cecioni amatissimo dal
Fattori : "
...tardi conosciuto dai più. - sempre amato dai buoni - non
dalla fortuna ". Nella fama che da morto lo avvolge e
già Io solleva alla gloria, sembra che della vita di lui non
si sappia altro che la sua onorata povertà. Su essa
insistono i molti pittori che scrivono del Fattori, quasi ad
ammonire il pubblico di non ripetere oggi contro loro
l'iniqua e tardi esecrata dimenticanza. Ma di quanto nella
biografia di questo artista può aiutarci a spiegare l'arte
sua e le successive maniere, pochi si occupano.
Sono stati, fra gli altri, dimenticati due fatti capitali.
Il primo è che Giovanni Fattori non ha mai creduto d'essere
un puro paesista, un pittore cioè di vuoti paesaggi, ma sì
un pittore di figura il quale adoperava i mille studi e
studietti di paese, adesso fortuna dei mercanti e invidia
dei raccoglitori, soltanto per comporre gli sfondi
convenienti ai suoi quadri di butteri, di bifolchi, di
boscaiole, di buoi, di puledri, di soldati, d'accampamenti,
di manovre, di battaglie. Il secondo fatto è che Giovanni
Fattori fino ai trentacinque o trentasei anni ha dipinto
poco e fiacco e i più dei quadri, quadretti, bozzetti e
appunti che oggi si espongono, si lodano, si comprano, sono
tutti dipinti versi i quarant'anni e dopo, dal 1861 o '65.
Il caso è più unico che raro nella storia dell'arte, ma ci
aiuta a capire quel che di meditato, riposato e maturo è
nelle sue opere migliori, anche nelle più antiche,
ingenuamente credute giovanili e primaverili.
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" Quand vous peignez un paysage, pensez a l'homme "
diceva Millet, la cui natura taciturna e paesana può, per
qualche lato, ricordare quella di Giovanni Fattori. La
verità è che da Pier della Francesca all'Angelico, da
Giorgione a Tiziano, da Breughel a Rembrandt, da
Gainsborough a Whistler, da Poussin a Corot, i massimi
creatori e rinnovatori della pittura di paese sono stati
prima maestri nella pittura di figura. Anche quelli che oggi
ci appaiono puri paesisti. Hobbema o Fontanesi, uscirono da
tempi e da scuole dove lo studio del corpo umano e delle sue
proporzioni e del carattere d'un volto o d'un gesto era il
primo precetto. Per questo nei loro più vasti paesaggi dove
alberi e nuvole sembrano soli a colloquio, nel "
Il viale di Middleharnis " o nelle "
Nubi ", appena t'avvicini vedi una o più figure umane
profilarsi nella luce, piccole ma presenti quanto occorre a
riaffermare che l'uomo è il metro del mondo e a stabilire la
viva simpatia fra te e la vuota veduta.
Anche quando la figura manca, come in molte tavolette
dipinte dal Fattori sul vero, se il paese è d'un pittor di
figura, tu senti ch'egli ha pensato, dipingendolo, all'uomo,
alla sua misura e alla sua forma, non solo per bilicare i
pieni e i vuoti, le luci e l'ombre, le lontananze vaporose e
le salde vicinanze, e per fissare il centro sul quale subito
si deve posare il tuo sguardo, ma anche per scegliere
disegnare e costruire i tratti salienti del paese, per
definirne cioè il sentimento e l'espressione a quell'ora in
quella luce, come fosse non lo spettacolo d'un incontro
fortuito d'alberi, acque, nubi, terre e case, ma quasi il
ragionevole volto d'un uomo.
Insomma il puro paesista come se n'è visti tanti in questi
ultimi cinquant'anni, comodamente inesperto di disegnare un
profilo o un ginocchio o una mano, è lo schiavo di quel che
gli si presenta ogni anno più prono e più facile nella sua
sottomissione e negli artifici per accettarla senza troppa
fatica. Invece il pittor di figure, quando dipinge un paese,
sta lì a dominarlo e frugarlo e interpretarlo e quasi
cercarne sotto la corteccia dei prati e della terra la
struttura e lo scheletro. Egli avrà dipinto, con quel paese,
il volto della sua anima a quell'ora in quel luogo.
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Così si comprende e si perdona il giusto disdegno dei vecchi
accademici per la pittura di paesaggio. E così si può
affermare che chi vuol capire e godersi i paesaggi di
Giovanni Fattori deve cominciare dal capire e godersi questi
ritratti dipinti da lui e adesso qui, per la prima volta,
allineati.
Giovanni Fattori è un macchiaiolo. anzi il fondatore e
battezzatore dei « Macchiaioli » toscani, visto che questo
nomignolo dai molti sensi sarebbe venuto a un gruppo di
pittori viventi a Firenze, Signorini, Lega, Cabianca, Banti,
Abbati, Borrani, d'Ancona, Sernesi, de Tivoli, e pochi altri
minori, proprio da un quadro del Fattori con tre "
Macchiaiole " dipinto presso Antignano di Livorno ed
esposto a Firenze nel 1867. Piuttosto il nomignolo derivò
dalla convinzione di quei pittori che il vero risulta nel
dipinto soltanto da macchie di colotre e di chiaroscuro
ciascuna delle quali ha un valore proprio, e che questo
valore si misura col mezzo del rapporto tra i vari toni : e
chi più ne vuol sapere, può leggere queste definizioni e
discussioni nel battagliero « Gazzettino delle arti del
disegno
» pubblicato a Firenze nel 1867, e negli « Scritti e
Ricordi » di Adriano Cecioni raccolti da Gustavo
Uzielli
(1)
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Pian piano quei consigli per salvarsi dalla melensa e liscia
e disossata pittura dei neoclassici e dei cosiddetti
romantici italiani rimasti più accademici dei neoclassici,
diventarono alla lor volta precetti d'Accademia anche essi;
e ai fedeli Macchiaioli fu proibito di oltrepassare « la
dimensione dei quindici centimetri, quella dimensione che
assume il vero quando si guarda a una certa distanza, a
quella distanza cioè in cui le parti della scena si vedono
per masse e non per dettaglio »: parole, appunto, del
Cecionì. Dei quali esempi di pura macchia si può qui vedere
il placido quadretto dipinto tra il '60 e il '7'0 con le
due signore contro luce nel bosco di Castiglioncello
(pag. 245) dove le facce di profilo sono rese con uno o due
piani soltanto, netti e campiti, e lo stesso fogliame degli
alberi è posto su tre o quattro piani stagliati l'uno
sull'altro, lentamente. dall'ombra alla luce.
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Ma la teoria della macchia non era una novità, o almeno,
come quasi tutte le novità, era nuova perchè era stata
dimenticata. Aveva scritto Leonardo da Vinci: " Tu,
pittore, farai le piccole figure solamente accennate e non
finite e, se altrimenti farai, contrafarai alli effetti
della natura tua maestra... Devesi per lo pittore porre
nelle figure e cose remote dall'occhio solamente le macchie,
non terminate, ma di confusi termini ».
(3)
Ed Emilio Zola nel 1866, convinto d'affermare anch'egli,
come i nostri Macchiaioli, una moderna scoperta, scriveva a
proposito di Edouard Manet: « Una testa di contro a un
muro non è più che una macchia più o meno bianca sopra un
fondo più o meno grigio, e il vestito della figura divenia,
per esempio, una macchia più o meno turchina messa accosto
alla macchia più o meno bianca. Da ciò una grande
semplicità, quasi nessun particolare, un insieme di macchie
giuste e delicate le quali a qualche passo di distanza danno
al quadro un rilievo che colpisce. »
(4)
Precetti e teorie contano molto poco. Da quelle massime
uscirono negli stessi anni gli Impressionisti francesi che
conquistarono il mondo, e questi Macchiaioli toscani che
solo da dieci o quindici anni gl'italiani cominciano a
considerare e ad amare e a commentare. E sono due scuole
tanto opposte che, quando arrivarono a Firenze intorno al
1880 due paesaggi di Camille Pissarro mandati dall'
impariginito Martelli, Giovanni Fattori dichiarò tondo che
gli sembravano vuoti, confusi e scoloriti
(5). Dieci anni dopo, in una lettera del
1891, rincarava la dose " L'impressionismo ha fatto
irruzione anche qui nelle nostre sale. È divenuto con danno
dell'arte una crittogama. Tutta, o una parte, della gioventù
ci si butta a corpo perso. Trovano la luce artificiale senza
fatica... Fattura nulla, disegno niente, soggetto e
sentimento negativo. A questi giovani ho detto: — Fonderete
un'altra Accademia, ecco il progresso che avrete inventato.
" L'impressionismo camaleontico, chiaro, lieve e vibrante
così che presto si mutò in puntinismo e divisionismo, nemico
delle forme disegnate e dell'ombre, non era per lui, per la
sua indole, per la sua innata tradizione di toscano che
crede alla consistenza, al volume, al peso, alla forma del
mondo reale, e si propone di renderlo per disegno e
chiaroscuro. Quei francesi correvano dietro all'attimo della
mutevole luce; questi toscani cercavano delle cose la
durata. Quelli, tutt'occhi, dipingevano solo sul vero,
rapidi e fluidi, le loro a " impressioni "; questi, occhi e
ragione, sul vero non facevano che " studi ".
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Non stiamo qui a distinguere un artista dall'altro. Parliamo
per brevità dei due gruppi come se abbiano davvero obbedito
compatti a una sola norma o maniera. Ma dobbiamo almeno
avvertire che ormai De gas e Manet non appaiono più legati
ai veri Impressionisti come Monet, Sisley e Pissarro, che da
fatti di cronaca e da amichevoli simpatie e da comuni
antipatie; e di qua, tra i Macchiaioli. il randagio e
ansioso Signorini, curioso di tutto. magari della maniera di
Fortuny o di Morelli, non può essere sempre accompagnato al
meditativo e calmo e solitario Fattori, come solo a tratti
può essergli accompagnato Silvestro Lega, delicato, nervoso
e disuguale, più parente, se mai, di Manet che di
Signorini-Degas o di Fattori-Costa-Corot.
A prendere insomma, perchè è logico, Giovanni Fattori pel
rappresentante più tipico e più lungamente stretto alla
maniera detta dei Macchiaioli, si trova ch'egli, contro
gl'Impressionisti di Francia e poi d'Italia, restò sempre
fedele al disegno bene inciso, come si può vedere in tutti i
suoi dipinti e anche più chiaramente nei suoi albumetti
d'appunti a matita, nelle sue maschie acqueforti e nei suoi
abbozzi; e al chiaroscuro non sfumato, ma definito per
taglienti zone di luce e d'ombre e di mezze ombre colorite,
quale era stato il chiaroscuro dei fiorentini del tre e del
quattrocento
(6); e alla convinzione che il quadro si
compone e si dipinge a studio e non sul vero, e sul vero si
dipingono solo studi e impressioni da servire poi a comporre
quadri.
Questa massima era stata rispettata per secoli da tutti gli
artisti, come quella che pone a base dell'opera d'arte
l'intelligenza, il gusto e la scelta, non solo la passiva
copia della realtà o la breve ispirazione del bozzetto. Fu
abbandonata nella seconda metà dell'ottocento da
innumerevoli artisti per obbedire ai comandamenti del
verismo, e per seguire l'ingenuo pregiudizio che a non dire
anche in arte tutta la verità e solo la verità non s'era dei
galantuomini, e per risparmiarsi, dopo tutto, la fatica
dell'invenzione e della composizione, e per gareggiare
infine con la fotografia. È stata necessaria la reazione,
anzi la restaurazione, da Cézanne ai cubisti, per sciogliere
l'arte da questa schiavitù e dal pregiudizio del " dipinto
sul vero ".
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