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(Fonte : Dedalo - Rassegna d'arte diretta da Ugo Ojetti, 1926-27)
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FERRUCCIO FERRAZZI, PITTORE
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Nel Ritratto della Sorella (1921) dove la figura
avvolta nella veste color zafferano staglia controluce sul
fondo verde fantastico, e i riflessi ne modellano
mirabilmente il volto, il problema accennato e non risolto
in Genitrice, e cioè l'impostazione di tutta una
figura lungo tutta una diagonale, è portato a una soluzione
sufficiente. È poi qui anche un progresso di tecnica
pittorica e un modellato più largo e più saldo. Ma come uno
smarrirsi della ricerca psicologica nella stessa pienezza
formale ci fa intendere che non è ancora questo il punto al
quale il pittore vuole arrivare.
Alla medesima conclusione si è portati dal Ritratto
di Fausto (pagg. 384-85). La realtà vi è accomodata con
accorgimenti e pose da fotografo. Nè lo sfondo o il contorno
sono tali che possano derivare all'artista gran che di
nuovo. Pure ancora una volta, di fronte alla realtà, le
risorse dell'arte vigoreggiano nel contrasto. La consistenza
plastica si fa sempre più definita attraverso quella sovrana
semplificazione dei piani che fa mirabile di toscana
immediatezza la fanciulla e le pieghe intorno alla cintura
del fratello. Qualcosa, ci sfugge tuttavia nella parte
superiore del quadro dove meno serrata appare la
composizione. Essa risulta come un compromesso non bene
definito tra lo schema piramidale al quale chiaramente
accenna il dipinto e un altro schema a losanga cui tuttavia
l'artista non arriva del tutto, perchè, certamente, esulava
dalle sue intenzioni. Ma l'armonia dei colori, campiti in
vaste zone, ristabilisce pienamente l'equilibrio. Non vi
sono quasi ombre in questi colori. La luce diretta o di
riflesso le disperde. E i soggetti, non dimentichiamolo, si
trovano all'aria aperta,
an plein air. Ma è pleinairismo che lascia tutto il suo valore al tono,
è pleinairismo manifestamente italiano.
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Abbiamo insistito su questa reazione che avviene in Ferrazzi
di fronte alla realtà, perché lumeggia l'originalità
sgorgante in lui spontanea, davanti ai soggetti più alieni.
Tratta un nudo di donna, l'Adolescente, (pag. 386)
con una meticolosità che si direbbe accademica. Prova ne è
il disegno,
dove anche meglio si scoprono le intenzioni dell'artista
(pag. 387), mirabile tanto da apparir tracciato a punta
d'argento da un fiorentino del maturo Cinquecento: parco
disegno, lumeggiato appena di bianco, dove il contorno non è
soltanto un limite ma una definizione di volumi, di volumi
che girano. Pure accademia non è.
E l'opera è anzi tra le più raffinate,
tra le più caratteristiche di Ferrazzi. Essa è in fondo una
sottile interpretazione del nudo per volumi geometrici. La
mano che posa, è la stessa del Cristo Benedicente di
Antonello. Con un quadro tanto sobrio e tanto severo
l'artista afferma così risolutamente quel suo modo di vedere
ch'egli chiama prismatico. Paolo Uccello, Piero della
Francesca, Antonello, sarebbero i suoi numi tutelari. E
d'ora in poi, — bizzarria perdonabile, piccolo capriccio
innocente, - non mancherà quasi mai nei suoi quadri il
piccolo prisma di vetro al posto d'onore, firma e suggello
dell'opera.
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Prismatico non solo nel giuoco dei volumi, nel modellato,
bensì anche nella definizione dello spazio. Come in questa Festa notturna (pag. 388)
elaborata dal 1921 al 1923, dove le figure si scaglionano in
profondità secondo uno schema che sarà poi ripetuto. Il
gaudio che dà la serena profonda notte d'estate, l'oblio che
viene da una festa popolare, la gioia di creare,
l'esaltazione della bimba primogenita: tutte queste cose
certamente il quadro vuol dire. Ne sprigiona un sottile
lirismo, indefinibile a parole, come la sensazione unica che
suscita il convergere di molte subite impressioni nel cuore
dell'uomo. I fantastici fiori artificiali, l'interno iridato
e abbagliante del riflettore sono le più alte note di
colore.
S'inizia, con questo quadro, la serie delle opere più belle.
Gagliarde architetture umane, inesorabili sviluppi di
profondità negli spazi trasfigurati dalla luce, drammi
d'anime e di volti che l'indagine amare della vita ha fatto
fieramente pensosi. Certo è un po' di posa, un avanzo di
romanticismo nel quadro definito i Caratteri
della mia famiglia
(pag. 389) e il gesto della donna in fondo ha un po' troppo
l'aria di voler sciogliere lo schema rigido già notato nella
Festa notturna e che qui
trova la più esemplare applicazione; ma la bellezza dei
particolari è tale da far perdonare quel pizzico di
retorica.
Il Ritratto di Horitia
(pag. 390) la moglie, dipinto nel 1923, è opera di una rara
compitezza. La luce, in gran parte, determina il valore
compositivo del quadro, staccando al centro una parte
illuminata del volto sull'ombra a destra dello stesso,
mentre si schiara la parete di sinistra a contrasto con
l'altra metà del volto in ombra. Le due verticali del fondo
correggono la curva elastica della testa tesa senza sforzo
da sinistra a destra, mentre a sua volta il tavolino
puntella la linea che scivola dalle spalle. Nel gesto
inoltre della mano, delicato, imitato dagli antichi, è un
espediente per togliere alla composizione così superbamente
architettata il carattere di un frammento. A tanto infatti
si riduce il quadro se si tolga quel particolare, in
apparenza superfluo.
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Dello stesso anno è l'Autoritratto e
Horitia (pag. 391) dove nel girare violento delle
quattro pupille e nella mano nervosa è il centro ideale al
quale tutto il resto converge, e dove è semplice serrata
mirabile la materia pittorica. Del 1924 sono i due ritratti
Gallenga e
Wedekind, dove necessità esterne han contrastato al
raggiungimento di quella pienezza che è nelle opere
precedenti (pagg. 393-95), qualcosa di simile all'effetto
che sugli archeologhi fa una testa «non pertinente» è nel
capo della signorina Gallenga, qualcosa che, come nel
ritratto Di Fausto, sfugge al severo organamento delle
braccia chiuse a trapezio, terminate dalle stupende mani;
mentre nel secondo ritratto riemerge il motivo delle
diagonali intrecciate e il bimbo che sorride del proprio
atteggiamento come un piccolo Sileno etrusco ne è il centro
e la composizione si fa stellare, come i raggi di una ruota.
Le prospettive sfuggenti dello sfondo - l'interno di un
albergo! - si sfaccettano sotto i duplici riflessi del sole
e della luce artificiale.
La luce è in fondo il segreto dell'armonia, in un quadro
tanto complesso d'intenzioni palesi ed occulte, tanto
mirabile come risultato, quale la Visione prismatica
(pag. 398). La luce ancora una volta definisce in questo
tondo le masse più che la linea stessa, più che la
pennellata nascosta e il colore che è, nonostante l'intima
pastosità, lucido come di smalto. Motivo del dipinto è il
bagno della bimba, per la quale v'è già chi appresta un
panno. Ma il motivo passa inavvertito. Sovrasta all'esigua
piramide il padre che reca il poliedro di vetro liscio e
polito, mentre di piano in piano sprofonda dietro lo spazio.
Mirabile tondo nel quale non soltanto si deve ammirare
l'adattamento al formato, ricercato per vie diverse da
quelle finora usate, e perciò intimamente moderno, ma anche
l'aderenza di queste singolari figure a uno spazio che
sembra per esse creato.
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Questa tendenza ad esprimersi per mezzo dello spazio legato
in sintesi indissolubile con la figura umana trattata
com'esso a piani poliedrici trova la sua più alta
espressione nel Viaggio tragico (pag.
396) doloroso e incerto come un sogno, ma viva e potente
figurazione plastica. Culmina la piramide centrale nella
testa d'uomo visto di tergo e seduto. Ma la parabola ha il
suo vertice più alto nel volto appassionato di donna in
piedi, e subito declina nel volto in ombra della donna
sgomenta che assiste. Sembrano vani schemi. Guardando il
quadro ci avvediamo invece come questo solenne equilibrio di
masse, questa sovrana squadratura di panneggi sono quelli
che fanno la grandezza di Giotto e di Masaccio, sono
l'impalcatura che l'impressionismo ci aveva fatto
dimenticare.
Altri quadri si seguono, e non pochi, in questo stesso anno.
Ma uno solo, di tutti, raggiunge, a nostro avviso, la
vastità spirituale delle opere precedenti, ed è un
paesaggio: l'Aniene a Tivoli (pag.
394) superbo di sintetica volontà di espressione, dove ogni
albero e ogni cespuglio vivono attraverso la loro fisionomia
intesa fin nell'intimo. Nè la Tempesta, nè
Horintia tra gli specchi, dove, come si apprende anche
dal titolo l'ambiente è ridotto esso stesso a un prisma nel
quale le forme si riflettono, possono stare sulla stessa
linea della
Visione e del Viaggio tragico. Il preconcetto
intellettualistico smorza alquanto e appiattisce le
caratteristiche salienti dell'arte ferrazziana. È quanto mai
efficace nella Tempesta il paesaggio dipinto a larghe
zone infuocate che riflettono l'avvicinarsi del nembo. Ma in
un quadro come l'Idolo (pag. 399) ieratico nudo di
donna ritto tra gli specchi, c'è da chiedersi come mai il
pittore dopo aver dipinto un nudo così bello abbia voluto
aggiungere una nicchia di specchi composta a quel modo.
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L'ultimo quadro che ancora, fresco fresco, domina dal suo
cavalletto, Attesa, Ferrazzi l'ha dipinto togliendo
un motivo allo sfondo della Visione prismatica, ma lasciando
che il colore questa volta modellasse le forme, non più la
luce. Già una modellazione a piani larghi e a pieno colore
la vedemmo in altre opere. Ma qui è più sottigliezza di
trapassi, più scioltezza di tocco. Libero per un istante dai
ceppi delle forme rigide del modellato poliedrico, il colore
diventa qui il fattore essenziale della rappresentazione,
basata esclusivamente su valori tonali.
Prodigiosa facoltà di rinnovarsi pittoricamente, serbando
intatto lo spirito che informa costante tutta l'opera
dell'artista, dalle prime prove dell'adolescente ai lavori
di oggi; tenacia indomita di lavoro che lo porta
spontaneamente a forme monumentali in vasti quadri di
potente respiro. È questo veramente l'artista che più d'ogni
altro ci sembra oggi vicino allo spirito dell'arte sacra,
quantunque ne sia, in apparenza, lontano. Spadini aveva nel
suo gran quadro sul Ritrovamento di Mosè dato un saggio
mirabile di interpretazione moderna e popolare ad un tempo
del fatto biblico. Ma egli era troppo abbacinato dalla luce
dell'oggi, per vedere ben chiaro nel fondo della storia dei
secoli e della tradizione e del sentimento religioso:
pittore squisito di forma. Ferrazzi invece, nei suoi quadri
migliori, non è un pittore che possa dirsi profano, anche se
tali sono i soggetti. Troppo monumentale per dipingere
nature morte, e sia pure dei ritratti, troppo intimo per
fare, come si suol dire, del genere, non esitiamo a vedere
in lui l'erede ideale di quella tradizione religiosa che ha
fatto per tanta parte la gloria della nostra arte.
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WART ARSLAN.
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