Pillole d'Arte

    
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(Fonte : Dedalo - Rassegna d'arte diretta da Ugo Ojetti, Milano-Roma, 1924-25)

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L'ARTE DI VINCENZO GEMITO E SETTE RITRATTI INEDITI

 
Di questi sette ritratti modellati da Vincenzo Gemito tra il 1873 e il 1879 a Napoli e a Parigi, uno è noto, quello del pittore Mariano Fortuny, del 1873; ma la fotografia è stata sempre tolta dal bronzo che è a Roma in Campo Verano sulla tomba di lui, non dalla creta originale che è a Venezia nel palazzo Fortuny col ritratto della figlia di lui e col ritratto di Francesco Paolo Michetti a ventitrè anni, in creta anch'essi. Presso il pittore Federico Carlos de Madrazo a Parigi ho trovato tre altre terrecotte: il ritratto di lui bambino (1), e il ritratto di suo nonno Federico de Madrazo, anch'egli pittore, modellati nel 1878 a Parigi; e la testa d'un giovane pescatore napoletano, la quale deve essere di quelli anni. Anche a Parigi, dal celebre oculista E. Landolt, è il ritratto che Gemito gli fece nel 1879. Questo è in bronzo (2).

Vincenzo Gemito, che modelli o che disegni è un gran ritrattista. Accanto ai suoi ritratti di Verdi e di Morelli, di Michetti e di Fortuny, le due statue celebratissime del Pescatorello e dell'Acquaiolo, d'una modellatura pur tanto serrata, hanno nell'istantaneità del loro gesto un che di scommessa e d'ostentazione. L'orcio, l'orciolo, la rete, la lensa, tutti gli amminicoli che sembrano calcati dal vero, rendono anche più frivola, rotta e fugace la visione dei due nudi acerbi e scattanti. Basta guardare a Firenze, sotto il voltone nel cortile del Bargello, il bronzo del Pescatore ficcato lì tra Arnolfo e Michelangelo, tra il Bandinelli e Giambologna, da un capriccio romantico di Corrado Ricci e confrontarlo con le statue attorno, per sentire che quel bronzo rattoppato e limato è già troppo grande pel piccolo tema e che un Giambologna o qualunque maestro della sua lunga figliolanza italiana e francese l'avrebbe modellato alto due palmi al più. Si aggiunga che in queste statue Vincenzo Gemito perde la gravità pensosa che è propria dell'arte sua e che soltanto faccia a faccia col mistero d'un altro uomo si rivela e t'incanta.

Palizzi, Toma, Morelli, Netti, Gemito, Amendola, d'Orsi: l'arte napoletana o dei meridionali convenuti a Napoli ha sempre, dal seicento quando nacque, fino a venti o trent'anni fa quando cadde in letargo, questo fondo serio, pensoso e anche doloroso. Lo ritroviamo nei suoi poeti dialettali, nè Dalbono, de Nittis, il giovane Michetti del "Corpus Domini" e delle Pastorelle devono, col loro riso e sorriso a suon di cembalo e a ritmo di tarantella, farcelo dimenticare. Lo stesso Michetti, abruzzese come Filippo Palizzi, abbandonò quell'allegria appena lasciò Napoli. Il "Voto" lo dipinse sui trent'anni, e l'espose nel 1883.

La rivoluzione che fu chiamata dei veristi, che chiese al vero e all'aria aperta l'aiuto per liberarsi dalle ricette accademiche e che, come tutte le rivoluzioni, fu fatta quando il nemico era esausto anzi imbalsamato, avvenne anche a Napoli prima in pittura che in scultura. I così detti veristi italiani, dall'Induno al Morelli, dal Cremona al Favretto, furono i nostri veri romantici. Basta paragonarli a Courbet per intendere questa contraddizione tra il nome francese e la realtà italiana. Noi insomma non abbiamo avuto una rivoluzione romantica contro l'accademia neoclassica come ha avuto, con Gericault e Delacroix, la Francia, regina della pittura per tutto l'ottocento. I nostri pittori "romantici", dall'Hayez, coetaneo di Tommaso Grossi, all'Arienti, coetaneo di Cesare Cantù, erano ancóra degli accademici, soltanto più foschi di colore e vestiti alla medievale: ma animo e disegno e composizione e movimenti da teatro e levigata pittura eran quelli. Anche qui basta paragonare i "Due Foscari" di Francesco Hayez o il "Federico Barbarossa" di Carlo Arienti alla "Zattera della Medusa" di Gericault o al "Massacro di Scio" di Delacroix, per dissipare con uno sguardo l'equivoco nominale (3). Non dico che il Morelli o il Cremona sieno poi arrivati a questo impeto e a questa corrusca potenza : ma sono i buoni ragazzi di quella agitata famiglia.

Così i nostri tardivi pittori e i nostri tardivissimi scultori, di nome "veristi", caddero presto nei lezi del piccolo soggetto di genere o nella declamazione del gran soggetto "sociale", tanto i poetici sospiri e la tonante rivolta contro l'ingiustizia erano naturali al loro animo, per quel che poteva dare l'Italia, romantico. A leggere oggi le pagine delle "Tre Arti" (4) dove Giuseppe Rovani rimprovera al mite Domenico Induno il suo cinico verismo, sembra di udirlo chiarnare i pompieri perchè vede quel pacifico borghese accendere la pipa.

Per restare a Napoli e tra gli scultori, più vicino cioè a Vincenzo Gemito, pur troppo è facile ricordare i soggetti di genere cari a tutti questi "veristi", dal patetico Amendola al sorridente Barbella, dal molle Jerace al rude d'Orsi. Ma s'ha da dire che i tanti scugnizzi, pescatorelli, guappetielli, cerinari, belle figliole, argute vecchiette, modellate da questi scultori fra il 1870 e il 1890 sono il meglio della moderna scultura napoletana perchè hanno continuato l'arte minuta ma vivace e indimenticabile dei modellatori di pastori da presepe la quale arte ancóra per fortuna si può ammirare nelle raccolte del museo di San Martino o del palazzo di Caserta (5). Tra i giovani artisti la moda era dir peste dei musei; ma la razza e la tradizione sono più forti di tutte le mode e, come il Morelli quando tentò di riunirsi al Tiepolo, così questi scultori si salvarono, alla meglio, solo quando ridussero la loro così detta lotta contro l'accademia neoclassica a scavalcar questa accademia e a ritrovare l'arte modesta ma sincera di quei loro antenati settecenteschi, del Sammartino, del Gori, del Mosca.
Altri invece fecero, come ho detto, la voce grossa, e in nome della verità pensarono con la scultura di riformare il mondo, che è anche questa una romantica maniera di veder l'arte. Essi scambiarono lo studio del vero, il quale, preso a sè, può dare indifferentemente un Donatello o uno Ximenes, con l'imperativo morale di dire la verità, niente altro che la verità. E apparve nel 1881 il "Proximus tuus" di Achille d'Orsi. Questo scultore senza stile è però un vigoroso modellatore le cui figure hanno sempre un saldo scheletro. Così si salvò. Ma non si salvarono i suoi cento imitatori, primo il siciliano Salvatore Grita con la "Cieca", "Pane e lavoro", la "Piccola proletaria". Venuta la voga del socialismo e della redenzione degli umili, essi ingombrarono di volti bestiali, di piote deformate, di cenci lerci le esposizioni italiane per mezzo secolo. E gli stessi "Parassiti" del d'Orsi, così, si potrebbe dire, fotografici, sono invece peggio che falsi; chè altro vigore e altra grandezza ebbe anche la corruzione nella Roma imperiale. Della quale falsità furono prova, anche questa volta, gli sfiaccolai imitatori di questo verismo storico: ad esempio, il Biondi nato sui confini della Campania, a Morolo di Frosinone, coi "Saturnali" che il nostro beato governo mandò fino all'esposizione mondiale di Parigi nel 1900 per mostrare il suo rispetto alla storia di Roma antica e all'arte dell'Italia nuova.

Altri, infine, di questi "veristi" napoletani si dettero audaci ai monumenti. La verità, tutta la verità. Perchè la verità diventi monumentale, basta, pensarono, farla grande. Basta? Si guardi il cosidetto monumento al duca Ferdinando di Genova in Torino modellato da Alfonso Balzico, nato a Cava dei Tirreni. È del 1867 e il principe v'è rappresentato mentre fa forza per liberarsi dal cavallo cadutogli sotto ferito: aberrazione ancóra rispettabile al confronto dei tanti modelli e ciociari e facchini vestiti da uomini celebri ed esposti in atteggiamenti ispirati sulle nostre pubbliche piazze. Di queste caricature credo che nessuna in tutta Italia arrivi alla tristezza del monumento a Padre Lodovico da Casoria, con San Francesco e Dante, eretto da Stanislao Lista a Posillipo. Il Lista salernitano, nei primi anni pittore, era un compatriota dell'Amendola; e Domenico Morelli in una relazione sull'esposizione romana del 1882 lo loda appunto per aver "cominciato col dimenticare precetti e regole" (6). Vincenzo Gemito l'ebbe maestro e fedelissimo amico (7).
 
Tra questi esempi e questi pericoli Vincenzo Gemito dovette formare l'arte sua. Alla scultura ormai, in nome del vero, anzi del calco dal vero, che è per la scultura ciò che la fotografia è al confronto della pittura, era stata tolta la bellezza, la forza, la dignità, la grazia, anzi lo stesso peso. Le pelle infatti doveva parere proprio pelle, e le vesti spiegazzate dovevano mostrare i loro diversi tessuti, tanto che di quei tempi si lodava il genovese Sante Varni per l'invenzione d'uno scalpello a più punte da imitare nel marmo le maglie delle calze e un altro da imitare lo spinato delle saie.
Miopi, gli scultori non videro più le loro statue che da vicino e in tocchi: gli occhiali, la catena dell'orologio, la camicia inamidata, il fiocco, le frange, gli occhielli, le scarpe, i bottoni delle scarpe. Si disse: una rivoluzione. Fu la rivoluzione dei rigattieri contro gli artisti, degl'imbalsamatori contro i creatori, del museo Grévin contro il museo di Napoli.

Eppure Vincenzo Gemito, al quale era stato imposto questo nome di trovatello in ricordo del fievole pianto con cui, nato da un giorno, la sera del 17 luglio 1852 aveva destato l'attenzione della suora di guardia alla ruota dell'Annunziata (la ruota ritratta da Gioacchino Toma nel suo mesto quadro), Vincenzo Gemito solo al mondo, senza padre e senza madre, giovanissimo e già instancabile e superbo, riuscì ad evitare quasi tutti quei pericoli e quelli esempi. Salvo le minuzie del "Pescatorello" e dell'"Acquaiolo", salvo l'errore del suo gran Carlo V chiuso fuor del palazzo Reale di Napoli nell'armadio della sua corazza alla quale non manca nè un cignolino nè un chiodo, egli non tradì la sua indole pensosa e altera nè con la declamazione retorica, nè con l'equivoco tra fotografia e statuaria, nè con le pulcinellerie a diletto dei forestieri i quali amano scambiare Napoli con Piedigrotta e la cultura napoletana, rimasta attraverso i secoli la più vicina alla soda logica e all'umana equità dei romani, col carnevaletto cencioso e con le vocianti superstizioni di quel popolino. Nelle sculture di Gemito solo l'Acquaiolo sorride. Anche le teste di giovani donne, modellate o disegnate, "Carmela", "Rosa", "Zingarella", hanno una dolce tristezza, le labbra schiuse come in un sospiro. Il solo nudo di donna che io conosca di lui, è un'immagine di dolore: una giovane, seduta, curva, i seni bassi, una mano sul ventre, il volto triste, la bocca anche qui aperta come nell'affanno d'una Laica (8). A osar d'attribuire intenzioni allegoriche a quest'anima semplice e chiara che nemmeno la lunga notte della follia ha, nell'arte, offuscata, si potrebbe pensare che nel Pescatorello, tutto raccolto a non lasciar sguisciar via dalle mani nervose la piccola preda, egli abbia simboleggiato sè stesso, così povero e nudo, senz'altro aiuto per salvar l'arte sua che quello della sua propria forza e virtù.

 

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