Pillole d'Arte

    
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(Fonte : Emporium - nr 192 - Dicembre 1910)

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Francesco Paolo Michetti

 
Ma per fortuna il pittore, avvertito, già correva giù per la collina al gran trotto del suo cavallo verso Francavilla. Da quel che aveva veduto nella chiesa prima che San Pantaleone uscisse al sole e soffrisse le indiscrezioni dell'obbiettivo, egli aveva tratto il soggetto del quadro: il busto del santo sopra un tappeto in terra tra sei candelieri, i contadini la lingua per terra, striscianti e sanguinanti dalla soglia della chiesa fino all'idolo che abbracciavano singhiozzando e tremendo, il prete sereno e sorridente sotto il gran piviale, inginocchiato lì presso con l'aspersorio in mano, e dietro a lui la folla, uomini, donne, vecchie, spose, infermi, bambini, tutti con un cero in mano, l'anima negli occhi, estatici e dolenti.

Si badi. Una più tragica visione della vita paesana era anche in Italia, nell'aria. Giovanni Verga aveva pubblicato nell'80 la Vita dei Campi e nell'81 I Malavoglia e si doveva parlar di verismo, nel senso francese e pessimistico, anche al caffè di Pescara. In arte Millet, morto nel 1875, cominciava ad essere conosciuto anche da noi ed esaltato tanto che trovava degl'imitatori (a modo loro, s'intende) perfino nella mite Toscana e che da qualcuno era già proposto come il solo possibile contravveleno all'ubbriacatura spagnola dei minuscoli epigoni fortuniani. E d'Orsi aveva esposto a Torino, tre anni prima, il Proximus tuus e due anni prima, a Milano, Patini, un abruzzese, L'erede; e anche attorno ad essi, imitazioni e plagi che non avevano avuto paura di ripetere magari lo stesso titolo della statua o della pittura imitata.
 
Si noti ancora. La trasformazione del Michetti è nel Voto meno profonda di quel che si disse allora. Il soggetto brutale è nuovo, ma la pittura resta la stessa: la stessa luminosità dei singoli oggetti senza l'unità della luce ambiente, lo stesso balzar in avanti di certe figure del fondo, la stessa minuzia di certi particolari e lo stesso sprezzo per certi altri, a capriccio, senza una logica visibile, così che al quadro mancavano ancora il centro e l'equilibrio, la stessa importanza data alla figura umana fin nei suoi ornamenti e nei suoi fronzoli, la stessa sommaria e fiacca pittura deí fondi, insomma la stessa visibile ostentazione della propria maestria senza un'austera ricerca di stile, che stile è rinuncia, semplificazione, misura. Come nel Corpus Domini, come nell'Ottava, come nei Morticini, anche nel Voto, dopo la prima ammirazione, si poteva sentire che il pittore avrebbe prodotto nello spettatore capace una più intensa emozione di gioja, di pena, di ribrezzo, se si fosse meno disperso e avesse voluto scegliere.

L'economia dell'attenzione è in pittura come in letteratura una condizione per la intensità dell'emozione. E, da Tintoretto a Millet, da Rembrandt a Boecklin, tutti i pittori di sentimento e di passione hanno obbedito, sapendolo o non sapendolo, a questa legge del minimo mezzo. Michetti ancora non vi obbediva. Si poteva dire che egli amava ancora sè stesso, la sua mano prodigiosa, la sua acutezza d'osservazione più dell'arte, e preferiva ancora far ammirare le proprie qualità di pittore più che il suo quadro. Dal quale l'anima sua restava fuori. Nelle altre sue opere, o la letizia primaverile o l'ebbrezza amorosa o la tristezza autunnale o la nostalgia davanti a un tramonto sul mare, eran visibili e comunicative anche se in quelle maggiori e più affollate l'efficacia era stata, come ho detto, diminuíta dalla dispesione delle parti. Ma qui, creando il Voto, che aveva egli sentito? Aveva forse, come più tardi nel Trionfo della Morte Giorgio Aurispa davanti a uno spettacolo simile, provato dentro quella chiesa "il disgusto per la bestia immonda strisciante nella polvere consacrata"? Esperimentando quella "aderenza materiale con lo strato infimo della sua razza" aveva egli arretrato d'orrore o aveva sorriso di scetticismo o aveva tremato per un improvviso contagio di bestialità e di superstizione? Non si capiva. Egli aveva dipinto quelle cinquanta figure del suo quadro oggettivamente come si diceva in quelli anni in cui si credeva nella favola d'un'arte oggettiva, cioè macchinalmente (una macchina prodigiosa e perfetta, s'intende) tanto che la pittura, ripeto, era stupefacente, ma non il quadro.

Quella pittura, pezzo per pezzo, figura per figura, superava per la varietà delle figure, la verità delle espressioni, il vigore del disegno tutto quel che il "mago" aveva fatto fino allora. E per questo gli studi che l'accompagnavano furono tutti venduti in pochi giorni, a mille lire l'uno, e il primo l'acquistò un pittore spagnolo, il Pradilla, e ringraziò Michetti del regalo: lode pericolosa che voleva inutilmente ricondurlo fra gli stanchi seguaci del Fortuny. Alma Tadema scrisse allora a Domenico Morelli: "Michetti est tout bonnement admirable: j'en suis fou". Ad inni universali si opposero da un lato pochi "costaroli", o discepoli di Nino Costa il quale in quelli anni si sforzava di ricondurre l'arte italiana sugli ammaestramenti inglesi a una semplicità e a un'ingenuità da primitivi e che appunto l'anno dopo nella stessa Roma finiva a raccogliere il suo gruppo nella società In arte libertas. L'articolo romanescamente violento e inutilmente scortese che il Costa scrisse contro il Voto partì da quel programma e fece perciò un grande rumore. E il rumore crebbe quando la commissione incaricata dal ministro delle compere ufficiali (2) comprò tutto per quarantasettemila lire — il Refugium peccatorum del Nono, il Bosco di Castagni del Boggiani, il Mulino a Verona del Bezzi, il Viaggio triste del Faccioli, un ritratto del Tallone, ma non il Voto del Michetti. Poichè col Michetti erano stati esclusi dalle compere anche il Favretto, il Delleani, il Fattori, il Carcano, il Tito, il Rossano, fu un urlo generale, da Torino a Napoli. I più severi e meditati articoli in quella girandola di polemiche furono scritti da Luigi Chirtani sul Corriere della Sera.

Ettore Ferrari portò la questione alla Camera e Guido Baccelli ministro dell'Istruzione nominò sei deputati - Odescalchi pel Lazio, Martini per la Toscana, de Riseis per le province dette napoletane, Crispi per la Sicilia, Perazzi per tutta l'alta Italia, Salaris per la Sardegna — perchè distribuissero (oh le idee artistiche del parlamento italiano...) altre centocinquantamila lire in tre parti uguali, una per l'Italia settentrionale, una per quella centrale, una pel resto! E la commissione comprò finalmente per quarantamila lire il Voto di Michetti. Lo sforzo fu tanto che da allora, in ventisette anni, il governo non è riuscito a comprare altro di lui che una Pastorella, una non felice variante di quella della collezione Rotondo.

Nino Costa in quel suo articolo fra molte iniquità aveva scritto queste parole giuste: "Gran peccato che un uomo tanto ben dotato dalla natura non sappia essere più semplice, per la coscienza della propria forza". Non so se il Michetti leggesse o, se lo lesse, meditasse questo giudizio. Ho già indicato altre cause e altri esempi che poterono subito dopo il Voto spingerlo verso una semplificazione e verso una ricerca di stile più vigile e più severa. Certo egli col Voto aveva nella piena maturità del suo ingegno mostrato la sincera volontà di rinnovarsi magari restando per qualche anno in disparte. A Torino nel 1884 non espose che acqueforti, scenette di campagna già da lui incise a Parigi nella casa Cadart e pubblicate dal giornale L'Art chè all'Istituto di Napoli egli aveva studiato anche incisione con Aloisio Juvara: a Venezia nel 1887, fra alcuni dei quadretti idillici che l'avevan condotto alla fama, non mandò di nuovo che un ritratto — il ritratto della signora Maria Bernadacki. Al ritratto si era dato in quelli anni con passione e ne aveva fatti a olio del re, della regina, della principessa Odescalchi (pel principe Baldassare Odescalchi aveva dipinto anche un Innocenzo XI che fu donato al Papa) e, a pastello, di sua moglie, di sua suocera, del d'Annunzio. D'Annunzio nel 1893 scrisse che i ritratti del re e della regina erano vere pagine storiche comparabili certo nella bellezza al Francesco I di Tiziano, al Giulio II di Rafaele, all'Almirante Pareja del Velasquez, al William Waram di Hans Holbein. I paragoni erano un poco contradditori e molto pericolosi: erano di maniera quanto quel "Rafaele". E quelle due tele oggi nella galleria veneziana d'arte moderna non sembrano più a nessuno degre ne di Tiziano nè del miglior Michetti. Ma il poeta che per un altro ritratto di Umberto aveva egli stesso indossato l'uniforme reale e aveva posato davanti a Michetti per la figura del re, vedeva giusto quando scorgeva in quei ritratti e negli altri di quelli anni e nelle teste che poi Michetti espose a Roma nel giugno del 1893, l'inizio per lui di un periodo più tranquillo e più lucido, una maggior purezza di pittura, uno sforzo costante a nascondere la propria sapienza, a raggiungere una più schietta semplicità.

L'effetto di questi propositi fu finalmente la grande tempera della Figlia di Jorio che apparve alla prima biennale di Venezia nel 1895 e che adesso è purtroppo nella Galleria Nazionale di Berlino, col Ritorno e con L'Ora triste di Giovanni Segantini.

Alle falde della Majella che biancheggia nel fondo, lungo un ciglione, sul sentiero fangoso, passa la figlia di Jorio (Jorio in abruzzese è Gregorio), la "cagna randagia", il capo ammantato dal suo mantello rosso color di bucchero; sull'orlo del ciglione sei uomini, giovani e vecchi, la guardano cupidi e chi ride e chi ghigna e chi l'ammira estatico; l'ultimo in piedi è decapitato dalla cornice (3), un ramo nudo di mandorlo tende da sinistra pochi fiori verso la bella desiderata, ma non si vede l'albero che lo sostiene.

Da venti anni Michetti pensava a quel tema che più tardi, nel 1904, suggerì a Gabriele d'Annunzio la sua tragedia pastorale. Prima ne aveva fatto un disegno ravvivato da due o tre colori, intitolato La rejetta, e la donna vi passava davanti a gruppi d'uomini e di donne che confabulavano in aria dí mistero fuori d'un villaggio di cui si intravvedevano tra gli alberi le prime case. In un altro disegno sul quale era scritto Passione, scena umana, una gran folla era fuori d'una chiesa e, proprio nel centro, in un vuoto di ostilità, si vedeva passare una donna, curva sotto uno sciale nero, con una mano sulla faccia, e il tendone rialzato a metà sulla porta maggiore del tempio recava — proprio così... — la parola Caritas. Pian piano la scena si era semplificata, i costumi eran diventati precisamente quelli di Orsogna, un caratteristico paesotto in quel d'Ortona rinomato per una pittoresca processione detta "dei Talami"; e non erano restati in cospetto della Figlia di Jorio sopra una ripa verde che cinque uomini: questa piccola tempera fu esposta a Milano nel 1881. Ma in nessuno di questi e degli altri studi e quadri preparatori, appariva ancora lo sfondo della montagna azzurra e bianca, - alone niveo di purezza su quel rosso peccato e quelle brame. E in nessuno — quel che più importa — la pittura era squadrata con pochi piani e con tanta fermezza e con tanta larghezza come nel quadro. La donna e il giovane seduto nel mezzo del quadro e l'uomo senza testa e un'altra mezza figura di donna che appare ferma a destra, con una secchia sul capo, sembrarono addirittura dipinte da un pittore a fresco che avesse studiato Masaccio o Pier della Francesca e la loro pittura statuaria. Niente fronzoli, niente particolari inutili: quel che si doveva dire e niente altro. E l'uomo decapitato e la donna tagliata a metà e il ramo di mandorlo senza tronco pareva che fossero lì per dichiarare questa intenzione del pittore di parlar breve e limpido, senza una sillaba di più del necessario. Solo nel terreno schizzato con poca consistenza era l'ultimo ricordo del Michetti beato di mostrare la propria bravura.

L'anno dopo egli vendeva — dicesi — per trecentomila lire al signor Ernesto Seeger di Berlino quel quadro e tutto quello che aveva nello studio — quadri ad olio e a tempera, e casse e casse di pastelli e di guazzi, di appunti e di simili. Quando nel 1889 partivo per Berlino per andare a vedere la mostra di tutte quelle opere, egli mi disse: - Troverai là tutto il mio lavoro di venti anni. Le pareti, le casse, le tavole del mio studio sono vuote. Ricomincio da capo, — e sorrideva agile e sano, soddisfatto di quella seconda giovinezza, felice di ritrovarsi davanti alla vita con occhi nuovi e con un bel sole di gloria sull'aperto orizzonte.

A Berlino la Figlia di Jrio del 1895 era esposta di contro al Corpus Domini del 1877. Tra quei due poli era chiusa tutta la nobilissima vita di questo solitario che aveva lavorato per venti anni a domare la facilità e l'irruenza del suo genio e a trovargli uno stile: una vita e un esempio.

Perchè da allora Michetti non ha più esposto un dipinto che continuasse la matura e virile bellezza di quella sua tempera? Il quadro l'Offerta che fu donato dalle dame e dai gentiluomini di Corte alla nuova regina d'Italia per le sue nozze, i disegni per la Bibbia d'Amsterdam esposti a Roma nel 1902, d'una forza tragica contenuta con tanta fermezza nella osservazione del vero che parvero, meno il Saul, troppo realistici in un momento in cui la pittura religiosa già tornava mistica e fantastica, sono sembrati passatempi per chi a quarantaquattro anni aveva costruito quel monumento. D'altra parte le due grandi tempere esposte a Parigi nel 1900, I Serpenti e Gli Storpii, parvero un ritorno alle intemperanze dei primi anni. Raffigurava la prima una processione attraverso un prato verdissimo, sullo sfondo d'una chiesa dal portico alto e affrescato, con confraternite di uomini e gruppi di donne e di bimbi in vesti violentemente policrome, tutti cinti di serpi verdastri e sul collo, sulle braccia, sulle croci, sui ceri; e la seconda, alcuni selvaggi episodi del pellegrinaggio di Casalbordino già descritto dal d'Annunzio nel Trionfo della Morte, cioè sotto un ripone giallo e riarso cinque o sei gruppi di storpii mostruosi e d'infermi protesi verso la croce che passa, spasimanti a implorare il miracolo. V'erano i soliti suoi pezzi d'incomparabile bravura, ma v'era anche quella sua antica ostentata noncuranza per la prospettiva lineare, per l'unità della luce, per la composizione o almeno per quell'equilibrio dei colori e delle masse che forma il quadro e toglie allo spettatore il fastidio di sentirsi davanti a un frammento, a un'opera inorganica che potrebbe continuare ancora per metri o essere senza danno dell'effetto tagliata ancora in frammenti minori. E, del resto, da allora, silenzio.

 La psicologia degli artisti vivi è difficile a definirsi. Quella degli antichi è più facile non solo perchè tutte le opere vi stan davanti alla mente e tutte le ipotesi sono lecite e anzi le più ardite e scortesi hanno il miglior successo, ma anche perchè gli artisti sulle cui vicende lo psicologo o lo storico o il critico s'affaccendano, son dalla morte costretti a tacere. Invece sull'apparente inerzia di Francesco Paolo Michetti non è chi non dica la sua. E v'è chi ne dà la colpa alla sua clausura in provincia, anzi in campagna, lontano dalle lotte e dalla concitazione e dall'emulazione delle città. E v'è chi la attribuisce a una specie di disgusto per l'arte venutogli dalla stessa facilità con cui ormai egli lavorava, perchè il piacere di creare vien solo dal dolore della gestazione. E v'è chi trae da qualche frase pessimistica del Michetti la conclusione che dopo il 1896, dopo Adua, e dopo la rassegnazione con cui gli italiani sembrano aver accolto la sconfitta, egli ormai disperi dell'avvenire della patria, e il lavoro gli sembri faticoso davanti a un pubblico sempre più meschino e sempre più egoista. E v'è anche fra gli artisti più giovani chi dice che il Michetti, tenutosi lontano a parole e a fatti da tutti i più recenti dibattiti sulla tecnica e sugli ideali della pittura — dibattiti che, del resto, sono un plagio tardivo di quelli di venti e trent'anni fa in Francia - , non abbia più voglia di esporre quadri per sentirsi, nel pieno vigor dell'ingegno, proclamare un superstite.... Tutte ipotesi e probabilmente tutte ciancie.

Michetti, certo, non se ne cura e forse nemmeno le sa. Su lui come sul suo d'Annunzio, chi li conosce da vicino, sa che è da savio non fare profezie perchè oggi essi sono, come venti anni fa, capaci di far ammutolire critici e profeti con una opera sola, inattesa, e oggi, conte vent'anni fa, una cosa sola sembra impossibile a guardarli e a udirli: che invecchino. Intanto Michetti continua a vivere, a studiare, a cercare, a meditare in un'attivissima pace nella sua Francavilla tra la collina e il mare presso la sua donna Annunziata, moglie e madre esemplare, presso la sua bella e dolce figliola Aurelia dai capelli neri, presso il suo Sandro che si è impiantato lassù tutt'un laboratorio di chimica e di meccanica. E nella cella del Convento di Santa Maria Maggiore dove Gabriele d'Annunzio tant'anni fa ha scritto il Piacere e ha sognato la sua Elena Muti sotto la coperta di seta fina "d'un colore azzurro disfatto" ricamata niente meno che coi dodici segni dello Zodiaco e proveniente niente meno che dal corredo di Bianca Maria Sforza, le buone e sane donne di casa Michetti hanno posto una macchina da cucire e cuciono i loro semplici lini profumati di spigo.....


Ugo Ojetti                  
 

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