Pillole d'Arte

    
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(Fonte : Emporium - nr 144 - Dicembre 1906)
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Artisti contemporanei : Auguste Renoir

 
Tre grandi tappe di un'evoluzione rinnovatrice, in odio alle grettezze ed ai convenzionalismi accademici meritano, nella così varia e così gloriosa storia della pittura francese del secolo decimonono, di essere prese in particolare considerazione, anche per l'influenza larga e profonda esercitata da esse sull'arte delle altre nazioni. La prima fu rappresentata da Corot, da Rousseau, da Daubigny e dagli altri paesisti di Fontainebleau, la seconda dai tre realisti Courbet, Millet e Daumier, di un'originalità personale così spiccata e così differente l'una dall'altra, e la terza dagl'impressionisti.

E' sopratutto, però, quale e quanta sia la genialità dei componenti le due balde schiere che lo precedettero ed in certo modo lo prepararono, a questo terzo piccolo ed ardimentoso gruppo di pittori, che incominciarono le loro prime armi poco dopo il 1860 e che furono battezzati col nome abbastanza inesatto d'impressionisti, il quale è rimasto sempre loro, malgrado che quelli di luministi, di libero-cromisti o d'istantaneisti avrebbero espresso assai meglio il carattere specifico delle ricerche e delle ambizioni dei loro pennelli, che va dato il merito grande di avere aperta una nuova larga via alla pittura contemporanea, con la luminosità ed il movimento nell'ordine formale e col modernismo nell'ordine sostanziale.

Eglino, facendo tabula rasa di tutti i vieti pregiudizi e di tutte le vecchie convenzioni, che sovraneggiano nel campo artistico, proclamarono una verità scientifica, trascurata a torto fin'allora dai pittori, che, cioè, la piena luce scolora i toni e che, quindi, il colore e la sagoma di un albero e di una casa, dipinti in una camera chiusa, differiscono essenzialmente nella sagoma e nel colore dal medesimo albero dalla medesima casa dipinti all'aria aperta. Eglino, adunque, sforzaronsi di ritrarre sulla tela gli esseri e le cose in mezzo al polviscolo luminoso, facendone risaltare i toni crudi, senza gradazioni, senza sfumature, in mezzo a raggi di sole, pioventi perpendicolarmente dall'alto, raccorciando, sopprimendo quasi le ombre, così come vedesi in alcuni meravigliosi disegni giapponesi. Cercarono infine di rappresentare la natura modificata secondo la stagione, secondo il clima, secondo l'ora della giornata, secondo l'ardore più o meno feroce del sole e le minacce più o meno accentuate della pioggia.

Da principio, in questi loro tentativi arditissimi, a base di esperimenti nei quali riusciva difficile molto serbare l'equilibrio, sovente tentennarono, esagerarono, sbagliarono. Colti da una specie di monomania ottica, pareva loro di scorgere sempre e dovunque una certa data tinta, ciò che faceva sì che uno dipingesse tutto in giallo ed un altro tutto in azzurro. Inoltre i loro quadri quasi sempre non erano che abbozzi, avendo eglino adottato, per un'intemperante esagerazione di metodo, il sistema malaugurato di abbandonare la tela qualche ora appena dopo averla incominciata, sotto pretesto che l'impressione voluta vi fosse già fissata e che a ritoccarla ed a completarla, essa si sarebbe sciupata.

Ma, a poco per volta, tali deficienze e tali esagerazioni andarono scomparendo e la formula impressionista, la quale del resto non è stata applicata in modo rigorosamente identico dai vari componenti del gruppo e risulta di due elementi, che non sempre fondonsi insieme, cioè la ricerca della maggiore possibile luminosità e della trasparenza atmosferica con le relative rifrazioni e l'espressione movimentata della realtà contemporanea, è riuscita, malgrado le più svariate e più accanite forme di ostilità, ad affermarsi sempre più ed ha finito con l'imporsi anche al grande pubblico, il quale, pure non essendo forse ancora completamente conquistato, non osa più oggidì avere verso di essa le feroci indignazioni, i freddi disprezzi, le sciocche e clamorose ilarità dei primi tempi. Ed è da notare che la loro influenza si è esercitata anche sugli avversari, giacchè, pure fieramente combattendoli, si è tenuto sempre più conto delle loro ricerche tecniche per chiarificare la tavolozza, ottenere una maggior efficacia luminosa ed esprimere la vita in movimento, tanto che il Degas ha potuto con ragione un giorno osservare mordacemente: "Ci si fucila, ma si fruga nelle nostre tasche".

Coloro che non hanno disarmato mai sono stati gli ultimati della mediocrazia tradizionalistica, che impera nelle sfere ufficiali dell'arte. Una prova tipica se ne ebbe, qualche anno fa, allorquando il Museo del Lussemburgo, accettando il legato del pittore e collezionista di quadri Gustave Caillebotte, consacrò una delle sue sale alle opere degli impressionisti: appena saputa la notizia, un gruppo di professori della Scuola di belle arti di Parigi mandarono una fierissima protesta al governo e minacciarono di dare le loro dimissioni, minaccia, che, però, con prudente senso di utilitaria praticità, si guardarono molto bene dal mettere in effetto. Un putiferio assai somigliante ebbesi nel 1900 in Germania, quando il direttore della Galleria Nazionale di Berlino osò comprare, benchè, per non intaccare la dotazione governativa, lo facesse con offerte private, un certo numero di tele impressioniste. E l'odio accanito degli accademici per questi ardimentosi e nobili pittori, che sacrificarono ad un ideale d'arte ogni soddisfazione morale e materiale della loro carriera e si rassegnarono a sentirsi qualificare, durante quasi tutta la loro vita, pazzi furiosi, nemici della bellezza, mistificatori volgari, non è forse espresso da Leon Gerome, il quale, attraversando con alcuni stranieri, a cui faceva da cicerone, la sala mirabile dell'Esposizione mondiale di Parigi del 1900, in cui erano raccolte, per la maggiore gioia degli occhi dei buongustai, alcuni dei quadri più caratteristici e significativi degli impressionisti, non si peritò di proclamare, con smorfia disdegnosa, che non bisognava arrestarsi neppure per cinque minuti dinanzi ad essi, perchè rappresentavano la vergogna della pittura francese moderna.

Una visione mirabilmente esatta del colore; un reciso disdegno delle convenzioni da secoli adottate per rendere tale o tal altro effetto di luce; una perseverante ed ansiosa ricerca dell'aria aperta, del tono reale, della vita in movimento; il sistema delle macchie di colori puri, dei vibranti riflessi luminosi, delle ombre fatte coi colori complementari e non più col bitume; una cura assidua di ottenere l'insieme con la maggiore semplicità possibile; l'ispirazione chiesta sempre alla vita che si svolge tutti i giorni sotto i nostri occhi; la sostituzione della bellezza caratteristica dell'espressione alla bellezza classica delle forme: ecco i caratteri principali dalla pittura, iniziata da quel gruppo di artisti indipendenti e ribelli ai dorami accademici, a cui fu dato più o meno imprecisamente il nome d'impressionisti e che, dopo avere suscitato così accanite ostilità, dovevano ottenere vittorie oltremodo lusinghiere nel campo dell'arte ed esercitare un' influenza tanto larga e proficua in Francia ed all'estero.

Adesso che i clamori pugnaci pro e contro di essi sono calmati e che ad un primo periodo di incomprensiva delegazione quasi generale è seguito un secondo periodo di vittoria trionfale e poi anche un terzo periodo di reazione, col ritorno in onore della colorazione bituminosa nella tecnica e del simbolismo nella concezione, riesce alfine possibile considerare così l'insieme del movimento impressionista come l'opera dei singoli campioni con imparziale serenità tanto nei pregi quanto nei difetti.

Io ho più volte espresso il desiderio privatamente e pubblicamente che il comitato direttivo delle biennali mostre veneziane aggiungesse ai tanti meriti che già possiede verso la coltura artistica del pubblico italiano quello di organizzare un'esposizione complessiva degli impressionisti francesi, come già si è fatto nelle principali capitali d'Europa, essendo ben convinto che essa riuscirebbe di grande attrattiva e sarebbe in ogni modo molto istruttiva, dappoichè evidente appare oggidì a chiunque non abbia la mente ottenebrata da inguaribili pregiudizi estetici, che, malgrado gli errori e le intemperanze inevitabili in ogni rivoluzione, sia sociale sia artistica, l'evoluzione fatta fare da essi alla pittura negli ultimi quarant'anni è stata, come ho già detto innanzi, una delle più importanti, delle più rinnovatrici e delle più salutari all'arte moderna. Purtroppo difficoltà materiali o precedenti impegni non hanno finora permesso l'attuazione del mio desiderio, mentre i quadri del Monet, del Pissarro, del Renoir, del Sisley e del Raffaelli esposti a Venezia nel 1897, nel 1903 e nel 1905 e che, se mal non ricordo, sono gli unici venuti finora in Italia, per quanto pregevoli, non erano però di quella significativa eccellenza, indispensabile, non meno di un certo svariato complesso di opere, a fare bene comprendere al nostro pubblico l'importanza degli impressionisti e delle riforme, con tanto ardimento e con tanto buon risultato, da essi propugnate e più o meno completamente ed accortamente attuate.
Benché mi manchi l'occasione di una pubblica mostra di largo interesse per delineare e definire, merce l'appoggio delle opere esposte, la personalità artistica dei diversi componenti del pugnace gruppo novatore di pittori francesi, io non voglio più tardare a presentare ai miei lettori, accontentandomi del semplice e abbastanza manchevole aiuto della foto-incisione, almeno i sopravviventi di esso, incominciando da Auguste Renoir.

Auguste Renoir, di cui, per la schietta modestia che lo caratterizza, sappiamo soltanto che è nato a Limoges il 25 febbraio del 1841, che ha, con fervida passione, consacrato tutta la sua esistenza alla pittura e che di proposito deliberato si è tenuto lontano dalle esposizioni ufficiali, avrebbe dovuto, sia per la geniale sua versatilità, sia per lo spontaneo senso di poetica grazia, che emana da tante delle sue tele, richiamare, più di ogni altro dei componenti del gruppo impressionista, l'attenzione dei critici e degli intenditori d'arte su di sé e sull'abbondante ed originalissima opera sua. Se ciò non è avvenuto e se anzi, fino a qualche anno fa, è stato meno discusso degli altri in male od in bene, se è rimasto ingiustamente per parecchio tempo nell'ombra, io credo che ciò sia dipeso dal non possedere egli né lo spirito instancabilmente combattivo di Edouard Manet, né la pertinace e paziente costanza di Claude Monet nel limitare la sfera dei novatori propri esperimenti tecnici quasi esclusivamente allo studio della luce e della trasparenza atmosferica nel paesaggio, con spiccata preferenza a chiedere l'ispirazione, durante un periodo di tempo più o meno lungo, ad una sola località, né la sdegnosa e mordace misantropia di Edgar Degas, atta per la medesima sua rigidità a suscitare la curiosità del pubblico, né l'abitudine di Jean-Francois Raffaelli di frequentare i cenacoli letterari di avanguardia e di scrivere, con stile facile ed elegante, sempre che gliene se ne presenta il destro, un manifesto, una prefazione od un'epistola ai giornali in sostegno del proprio indirizzo artistico.



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