Tre grandi tappe di un'evoluzione rinnovatrice, in odio alle
grettezze ed ai convenzionalismi accademici meritano, nella
così varia e così gloriosa storia della pittura francese del
secolo decimonono, di essere prese in particolare
considerazione, anche per l'influenza larga e profonda
esercitata da esse sull'arte delle altre nazioni. La prima
fu rappresentata da Corot, da Rousseau, da Daubigny e dagli
altri paesisti di Fontainebleau, la seconda dai tre realisti
Courbet, Millet e Daumier, di un'originalità personale così
spiccata e così differente l'una dall'altra, e la terza
dagl'impressionisti.
E' sopratutto, però, quale e quanta sia la genialità dei componenti
le due balde schiere che lo precedettero ed in certo modo lo
prepararono, a questo terzo piccolo ed ardimentoso gruppo di
pittori, che incominciarono le loro prime armi poco dopo il
1860 e che furono battezzati col nome abbastanza inesatto d'impressionisti,
il quale è rimasto sempre loro, malgrado che quelli di
luministi, di libero-cromisti o d'istantaneisti
avrebbero espresso assai meglio il carattere specifico delle
ricerche e delle ambizioni dei loro pennelli, che va dato il
merito grande di avere aperta una nuova larga via alla
pittura contemporanea, con la luminosità ed il movimento
nell'ordine formale e col modernismo nell'ordine
sostanziale.
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Eglino, facendo tabula rasa di tutti i vieti
pregiudizi e di tutte le vecchie convenzioni, che
sovraneggiano nel campo artistico, proclamarono una verità
scientifica, trascurata a torto fin'allora dai pittori, che,
cioè, la piena luce scolora i toni e che, quindi, il colore
e la sagoma di un albero e di una casa, dipinti in una
camera chiusa, differiscono essenzialmente nella sagoma e
nel colore dal medesimo albero dalla medesima casa dipinti
all'aria aperta. Eglino, adunque, sforzaronsi di ritrarre
sulla tela gli esseri e le cose in mezzo al polviscolo
luminoso, facendone risaltare i toni crudi, senza
gradazioni, senza sfumature, in mezzo a raggi di sole,
pioventi perpendicolarmente dall'alto, raccorciando,
sopprimendo quasi le ombre, così come vedesi in alcuni
meravigliosi disegni giapponesi. Cercarono infine di
rappresentare la natura modificata secondo la stagione,
secondo il clima, secondo l'ora della giornata, secondo
l'ardore più o meno feroce del sole e le minacce più o meno
accentuate della pioggia.
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Da principio, in questi loro tentativi arditissimi, a base
di esperimenti nei quali riusciva difficile molto serbare
l'equilibrio, sovente tentennarono, esagerarono,
sbagliarono. Colti da una specie di monomania ottica, pareva
loro di scorgere sempre e dovunque una certa data tinta, ciò
che faceva sì che uno dipingesse tutto in giallo ed un altro
tutto in azzurro. Inoltre i loro quadri quasi sempre non
erano che abbozzi, avendo eglino adottato, per
un'intemperante esagerazione di metodo, il sistema
malaugurato di abbandonare la tela qualche ora appena dopo
averla incominciata, sotto pretesto che l'impressione voluta
vi fosse già fissata e che a ritoccarla ed a completarla,
essa si sarebbe sciupata.
Ma, a poco per volta, tali deficienze e tali esagerazioni
andarono scomparendo e la formula impressionista, la quale
del resto non è stata applicata in modo rigorosamente
identico dai vari componenti del gruppo e risulta di due
elementi, che non sempre fondonsi insieme, cioè la ricerca
della maggiore possibile luminosità e della trasparenza
atmosferica con le relative rifrazioni e l'espressione
movimentata della realtà contemporanea, è riuscita, malgrado
le più svariate e più accanite forme di ostilità, ad
affermarsi sempre più ed ha finito con l'imporsi anche al
grande pubblico, il quale, pure non essendo forse ancora
completamente conquistato, non osa più oggidì avere verso di
essa le feroci indignazioni, i freddi disprezzi, le sciocche
e clamorose ilarità dei primi tempi. Ed è da notare che la
loro influenza si è esercitata anche sugli avversari,
giacchè, pure fieramente combattendoli, si è tenuto sempre
più conto delle loro ricerche tecniche per chiarificare la
tavolozza, ottenere una maggior efficacia luminosa ed
esprimere la vita in movimento, tanto che il Degas ha potuto
con ragione un giorno osservare mordacemente: "Ci si fucila,
ma si fruga nelle nostre tasche".
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Coloro che non hanno disarmato mai sono stati gli ultimati
della mediocrazia tradizionalistica, che impera nelle sfere
ufficiali dell'arte. Una prova tipica se ne ebbe, qualche
anno fa, allorquando il Museo del Lussemburgo, accettando il
legato del pittore e collezionista di quadri Gustave
Caillebotte, consacrò una delle sue sale alle opere degli
impressionisti: appena saputa la notizia, un gruppo di
professori della Scuola di belle arti di Parigi mandarono
una fierissima protesta al governo e minacciarono di dare le
loro dimissioni, minaccia, che, però, con prudente senso di
utilitaria praticità, si guardarono molto bene dal mettere
in effetto. Un putiferio assai somigliante ebbesi nel 1900
in Germania, quando il direttore della Galleria Nazionale di
Berlino osò comprare, benchè, per non intaccare la dotazione
governativa, lo facesse con offerte private, un certo numero
di tele impressioniste. E l'odio accanito degli accademici
per questi ardimentosi e nobili pittori, che sacrificarono
ad un ideale d'arte ogni soddisfazione morale e materiale
della loro carriera e si rassegnarono a sentirsi
qualificare, durante quasi tutta la loro vita, pazzi
furiosi, nemici della bellezza, mistificatori volgari, non è
forse espresso da Leon Gerome, il quale, attraversando con
alcuni stranieri, a cui faceva da cicerone, la sala mirabile
dell'Esposizione mondiale di Parigi del 1900, in cui erano
raccolte, per la maggiore gioia degli occhi dei buongustai,
alcuni dei quadri più caratteristici e significativi degli
impressionisti, non si peritò di proclamare, con smorfia
disdegnosa, che non bisognava arrestarsi neppure per cinque
minuti dinanzi ad essi, perchè rappresentavano la vergogna
della pittura francese moderna.
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Una visione mirabilmente esatta del colore; un reciso
disdegno delle convenzioni da secoli adottate per rendere
tale o tal altro effetto di luce; una perseverante ed
ansiosa ricerca dell'aria aperta, del tono reale, della vita
in movimento; il sistema delle macchie di colori puri, dei
vibranti riflessi luminosi, delle ombre fatte coi colori
complementari e non più col bitume; una cura assidua di
ottenere l'insieme con la maggiore semplicità possibile;
l'ispirazione chiesta sempre alla vita che si svolge tutti i
giorni sotto i nostri occhi; la sostituzione della bellezza
caratteristica dell'espressione alla bellezza classica delle
forme: ecco i caratteri principali dalla pittura, iniziata
da quel gruppo di artisti indipendenti e ribelli ai dorami
accademici, a cui fu dato più o meno imprecisamente il nome
d'impressionisti e che, dopo avere suscitato così accanite
ostilità, dovevano ottenere vittorie oltremodo lusinghiere
nel campo dell'arte ed esercitare un' influenza tanto larga
e proficua in Francia ed all'estero.
Adesso che i clamori pugnaci pro e contro di essi sono
calmati e che ad un primo periodo di incomprensiva
delegazione quasi generale è seguito un secondo periodo di
vittoria trionfale e poi anche un terzo periodo di reazione,
col ritorno in onore della colorazione bituminosa nella
tecnica e del simbolismo nella concezione, riesce alfine
possibile considerare così l'insieme del movimento
impressionista come l'opera dei singoli campioni con
imparziale serenità tanto nei pregi quanto nei difetti.
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Io ho più volte espresso il desiderio privatamente e
pubblicamente che il comitato direttivo delle biennali
mostre veneziane aggiungesse ai tanti meriti che già
possiede verso la coltura artistica del pubblico italiano
quello di organizzare un'esposizione complessiva degli
impressionisti francesi, come già si è fatto nelle
principali capitali d'Europa, essendo ben convinto che essa
riuscirebbe di grande attrattiva e sarebbe in ogni modo
molto istruttiva, dappoichè evidente appare oggidì a
chiunque non abbia la mente ottenebrata da inguaribili
pregiudizi estetici, che, malgrado gli errori e le
intemperanze inevitabili in ogni rivoluzione, sia sociale
sia artistica, l'evoluzione fatta fare da essi alla pittura
negli ultimi quarant'anni è stata, come ho già detto
innanzi, una delle più importanti, delle più rinnovatrici e
delle più salutari all'arte moderna. Purtroppo difficoltà
materiali o precedenti impegni non hanno finora permesso
l'attuazione del mio desiderio, mentre i quadri del Monet,
del Pissarro, del Renoir, del Sisley e del Raffaelli esposti
a Venezia nel 1897, nel 1903 e nel 1905 e che, se mal non
ricordo, sono gli unici venuti finora in Italia, per quanto
pregevoli, non erano però di quella significativa
eccellenza, indispensabile, non meno di un certo svariato
complesso di opere, a fare bene comprendere al nostro
pubblico l'importanza degli impressionisti e delle riforme,
con tanto ardimento e con tanto buon risultato, da essi
propugnate e più o meno completamente ed accortamente
attuate.
Benché mi manchi l'occasione di una pubblica mostra di largo
interesse per delineare e definire, merce l'appoggio delle
opere esposte, la personalità artistica dei diversi
componenti del pugnace gruppo novatore di pittori francesi,
io non voglio più tardare a presentare ai miei lettori,
accontentandomi del semplice e abbastanza manchevole aiuto
della foto-incisione, almeno i sopravviventi di esso,
incominciando da Auguste Renoir.
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Auguste Renoir, di cui, per la schietta modestia che lo
caratterizza, sappiamo soltanto che è nato a Limoges il 25
febbraio del 1841, che ha, con fervida passione, consacrato
tutta la sua esistenza alla pittura e che di proposito
deliberato si è tenuto lontano dalle esposizioni ufficiali,
avrebbe dovuto, sia per la geniale sua versatilità, sia per
lo spontaneo senso di poetica grazia, che emana da tante
delle sue tele, richiamare, più di ogni altro dei componenti
del gruppo impressionista, l'attenzione dei critici e degli
intenditori d'arte su di sé e sull'abbondante ed
originalissima opera sua. Se ciò non è avvenuto e se anzi,
fino a qualche anno fa, è stato meno discusso degli altri in
male od in bene, se è rimasto ingiustamente per parecchio
tempo nell'ombra, io credo che ciò sia dipeso dal non
possedere egli né lo spirito instancabilmente combattivo di
Edouard Manet, né la pertinace e paziente costanza di Claude
Monet nel limitare la sfera dei novatori propri esperimenti
tecnici quasi esclusivamente allo studio della luce e della
trasparenza atmosferica nel paesaggio, con spiccata
preferenza a chiedere l'ispirazione, durante un periodo di
tempo più o meno lungo, ad una sola località, né la sdegnosa
e mordace misantropia di Edgar Degas, atta per la medesima
sua rigidità a suscitare la curiosità del pubblico, né
l'abitudine di Jean-Francois Raffaelli di frequentare i
cenacoli letterari di avanguardia e di scrivere, con stile
facile ed elegante, sempre che gliene se ne presenta il
destro, un manifesto, una prefazione od un'epistola ai
giornali in sostegno del proprio indirizzo artistico.
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