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(Fonte : Dedalo - Rassegna d'arte diretta da Ugo Ojetti, Milano-Roma,
1922-23)
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IL PITTORE FELICE CARENA
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Il Piemonte non ha una pittura che sia singolare e sua. Da Macrino d'Alba al Sodoma, dal Fontanesi, torinese di vita ma di nascita emiliano,
al Delleani, non si trova mai nei pittori piemontesi un rito anche tenue che li leghi tra loro e alla loro patria; che riveli in arte, com'è
pei lombardi, pei veneti o pei toscani, alcuni dei tanti e originali e profondi caratteri di quel popolo esemplare. Lo stesso s'ha da dire
della letteratura piemontese, almeno fino al Baretti. Arte d'accatto, letteratura d'accatto. Finchè nel resto d'Italia furono vive e salde
le scuole regionali, i pittori piemontesi poterono aderire a questa o a quella, Macrino agli umbri e ai toscani, il Sodoma, per dirla col
Vasari, "a quella maniera di colorito acceso ch'egli aveva recato di Lombardia". Nell'ottocento, poichè questi nuclei dovunque in Italia
s'erano infranti, la Francia e la Svizzera francese, più vicine, attrassero i piemontesi migliori: Pittara, Pasini, Fontanesi, Avondo.
Quando nel 1878 all'Esposizione universale di Parigi apparvero i quadri d'Alberto Pasini, la critica parigina lo chiamava, per lodarlo,
"uno dei nostri". Lorenzo Delleani s'era rifugiato a Venezia.
Più tardi diffondendosi su tutta l'Europa il polverone dell'Impressionismo,
mentre nelle scuole l'insegnamento della pratica e della grammatica dell'arte perdeva disciplina e serietà, anche queste fughe e questi
soccorsi di là dalle Alpi o di là dal Ticino, divennero impossibili. E i pittori piemontesi, come del resto quasi tutti gli altri pittori
italiani, non ebbero a fidarsi che delle loro forze: ognuno per se, solo con la sua speranza. Le scuole nulle, il pubblico distratto, la
critica eclettica, lo Stato avaro e, per amor di giustizia, indifferente: ecco, vent'anni fa in quale deserto dovette tentare di mettere
radice l'arte dei giovani. Ancóra toscani, lombardi, veneziani, napoletani, trovarono, i pochi che ebbero coraggio, soccorso e guida in
qualche maestro solitario come Fattori o Carcano, o in un titubante ritorno, attraverso a lunghi discorsi e a diluite filosofie, verso le
tradizioni locali. Ma pei piemontesi, niente.
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Felice Carena è nato a Torino nel 1880, di famiglia torinese: suo padre è un vecchio soldato delle guerre dell'Indipendenza, dal 1859 al '66
e al '70, fedele alla sua monarchia e alla sua religione; un suo fratello, maggiore di fanteria reduce dal Carso, da Oslavia, dall'Altipiano;
un altro fratello, sacerdote, predicatore di calda eloquenza e di gran séguito. Il luogo e l'anno della nascita di questo pittore spiegano
dunque la lenta maturazione del suo ingegno, le ansie, incertezze, patimenti, pentimenti e conversioni di lui meglio di qualunque sua
confessione: ed è uomo da confessarsi apertamente e pienamente, se tanto tanto sente che il vostro cuore ne sia degno, perché conosce sè
stesso ed enumera i proprii errori col placido orgoglio che è proprio dei convertiti quando vi mostrano da che bassura han saputo, loro,
risalire alla luce.
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Serio, schivo, di poche lente e meditate parole, chiuso nel suo lavoro e diffidente, questo che è insomma uno dei pittori italiani più ricchi
di doti naturali e di coscienza e di volontà e che è certo il maggiore dei pittori piemontesi della sua generazione, non ha, uscendo all'arte,
trovato appoggio nè in una tradizione della sua patria nè in un maestro ch'egli, almeno nei primi anni, sentisse più alto e più potente di
lui. Il gioco delle ipotesi, lo so, è vano nella storia, sia pure nella storia d'un uomo; ma non si può fare a meno d'immaginare con
rimpianto lo slancio di una natura siffatta in quelle ordinate palestre d'arte che furono la Toscana del tre e del quattrocento o la Venezia
del cinque e del settecento. L'allenamento metodico, la gara continua, l'unità dello stile, il buon gusto diffuso, l'esempio e il consiglio e
l'aiuto dei grandi davano statura e prestanza anche ai nani. Qui no: il deserto e il miraggio.
Un primo miraggio fu, per sei anni, all'Accademia Albertina la scuola di Giacomo Grosso. Il teatrale verismo di lui, il seducente vigore di
certi suoi ritratti giovanili dov'è più facile riconoscere il modello che riconoscere il pittore, erano proprio agli antipodi d'un poeta
come Carena che ha sempre, d'istinto, veduto nella realtà l'occasione dell'arte, non una padrona e una tiranna. In quelli anni due amicizie
lo confortarono: quella paterna di Leonardo Bistolfi, ingegno ardente ma un poco fumoso; e quella di Giovanni Cena, spirito alfieriano e
appassionato che, soffocato nel carcere d'un gracile corpo e d'una faticosa scrittura, evadeva prodigandosi in opere di bontà poiché le
opere di bellezza tanto gli erano ardue.
Quel che fu, poco; quel che volle, immenso.
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Nel 1906 ottenne il pensionato nazionale e scese a Roma. Quel giovane lungo e scarno, di pel rosso, cogli occhi azzurri, le ciglia gialle,
le orbite fonde e le labbra tumide, era un romantico che della vecchia Roma lenta rotonda assennata e papale, della nuova Roma parlamentare
volpina agile e godereccia guardò tutto con diffidenza. Era un romantico che credeva nella benefica libertà, nella bellezza della vita
spontanea, nella bontà naturale dell'uomo, nella santa pietà pei travolti dalla passione: nella pittura di puro colore.
A dire che il colore è il linguaggio dei sensi e il disegno è il linguaggio dell'intelligenza, si dice male perché nei grandi, si chiamino
Piero della Francesca o Tiziano, colore e disegno non sono così separati, anzi opposti come i trattatisti credono o dicono. Ma questo modo
di dire e di definire è utile per intendersi e rappresenta bene i due poli tra cui oscilla nei secoli l'arte della pittura senza mai perdersi
proprio a toccare l'uno o l'altro polo, chè sarebbe svanire. Certo il Carena nel periodo giovanile quando proprio a Roma credette nella
pittura di puro colore, musicale e sensuale, e dipinse i quadri poi, nel 1912, raccolti nella sua mostra veneziana, soffriva di quel suo
abbandonarsi, sentiva che quella pittura era in contrasto con la sua stessa indole morale e col suo ritegno di solitario, era insomma un
peccato di gioventù che poteva giovargli solo come esperienza. Noi allora lo giudicammo così: "Felice Carena è un sinfonista: i colori egli
li aggruppa, li vela, li fonde, li oppone, li richiama a distanza con echi impensati e languidi. E in questo gioco egli spesso esaurisce il
proprio sentimento che è mite e tende alla tristezza e alla meditazione. Il Carena che ha poco più di trent'anni e ha già una maestria di
pennello invidiabile, non ha ancóra trovato il suo equilibrio. E' un poeta che ancóra si lascia trascinare dalle sue rime sonore".
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Non speravamo d'essere profeti. La mostra ebbe un grande successo. La Galleria nazionale comprò per Roma la "Madre" dove l'eco di Carrière
svaniva in verdi, in azzurri, in rosa zuccherosi e perdeva l'originale austera religiosa emozione. La Galleria Revoltella comprò per Trieste
la "Madonna" che è solo un quadro fastosamente decorativo nel quale il volto malinconico e sfumato della madre resta a soffrire da solo
sopra un frastuono di rossi, di verdi e di viola. La Galleria di Venezia comprò il "Nastro azzurro". Il Re comprò un quadro di fiori,
"Anemoni". Ma questi sonanti applausi non traviarono il Carena. Egli sentiva (per ripetere le sue parole d'adesso), che quella era "una
pittura casuale" e che a paragonarlo, come alcuni lo paragonarono, addirittura ai veneziani del secolo d'oro, gli si faceva più un'offesa
che una lode. Caso raro e ammirevole di vigile coscienza e d'incorruttibile ambizione.
Ed ecco, per ritrovare il suo equilibrio, Felice
Carena piegar tutto dal lato opposto, verso il puro arabesco e le nette sagome della pittura di Gauguin a carta da gioco, e perfino verso
quelle lunghe e liquide pennellate a freghi e sbaffi sulla tela nuda che tedeschi e meticci hanno ammirate come segni di atletica virtù
nello sciabolatore Matisse. Questa fu la sua Mostra a Roma nel 1916. Dal fasto insomma volle ridursi all'indigenza. Sperò quasi in un miracolo
che, per compensarlo del sacrificio, gli rivelasse la via. Era un vicolo cieco: dice adesso. Ma era venuta la guerra.
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