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(Fonte : Dedalo - Rassegna d'arte diretta da Ugo Ojetti,
Milano-Roma, 1922-23)
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IL PITTORE FELICE CARENA
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Ed ecco un altro artista cui la guerra veduta da vicino e patita ha giovato. La vita nuova della guerra, per tre e quattro anni, vicina al
dolore e alla morte, lontana dal lavoro consueto e dal solitario tormento dell'arte; tutta sospesa a una speranza che solo forze morali e
materiali più vaste e potenti della volontà di un uomo potevano tradurre in atto: tutta ordinata da una disciplina e da un comando per cui
l'uomo era niente, era una cosa, eppure, se riusciva ad imporsi d'essere solo una cosa, provava in quella cosciente umiltà la gioia d'uno
slancio mistico che lo trasumanava: questa vita, questo esilio, si potrebbe dire questo tragico svago della guerra ha permesso anche a questo
artista di fare il suo esame di coscienza. Gli ha permesso cioè di guardare e di giudicare sè stesso, pian piano, come un estraneo, sè stesso e
i proprii mezzi e le proprie ambizioni; di adeguare, lui piemontese, alle sue qualità morali d'ordine e di ritegno le sue qualità artistiche;
di sentire che anche l'arte, in quanto è scelta cosciente, in quanto è istinto più intelligenza, sentimento più ragione (emoction recollected
in tranquillity, diceva Wordsworth), è un fatto morale, anzi è una lezione di morale, è insomma stile. La guerra, scuola del mondo.
Nel 1916 Felice Carena, caporale d'artiglieria, era "osservatore" sull'altipiano d'Asiago e disegnava sasso per sasso le linee nemiche. Era
sull'Ortigara nel giorno in cui i nostri vi furono di sorpresa decimati e vide la strage. Fatto il "corso ufficiali", servi nel terzo reggimento
Artiglieria da montagna sul Grappa, poi in Val Lagarina. Entrò con le prime truppe, nelle prime ore del pomeriggio del 3 novembre, a Trento.
Sua madre, quand'egli partì, sapendolo cosi gracile e solo gli ripeteva ansiosa: ? Che farai? Che farai ? ? Anche, quand'era bambino, i suoi a
vederlo così muto e pronto alle lagrime, gli avevano per anni ripetuto sfiduciati quel ritornello: ? Tu che farai? Che farai?
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Ecco che ha fatto in guerra: il suo dovere come soldato; come artista, s'è rinnovato e s'e salvato. Per tre anni non ha toccato i pennelli: e
questo gli ha giovato a rivedere con occhi nuovi la sua opera passata e l'arte sua. Per mesi e mesi in linea, nel breve orizzonte della trincea,
i suoi occhi si sono abituati a dar valore e splendore ad ogni minutia della realta. Infine (ed ecco il latto morale), egli vivendo fianco a
fianco con uomini d'ogni classe e d'ogni animo e dividendo con loro ansie e speranze, ha compreso che l'arte è una forma della certezza; che
l'arte è il modo più certo e più durevole trovato dagli uomini per comunicare tra loro; che la chiarezza é la prima dote anche dell'intelligenza
d'un pittore; che l'artista deve parlare a tutti, più chiaro e franco che può, per rivelare se stesso agli altri, e anche gli altri a se stessi;
che simboli e criptogramini sono vani e malinconici passatempi con cui l'artista chiuso nei cenacoli si separa dai suoi simili e avvizzisce e
muore; che i problemi della tecnica sono gli esercizi e i giochi preliminari dell'arte, non l'arte; che se fra le tante scuole e maniere
dell'arte in Italia, di secolo in secolo e di regione in regione, qualcosa si puo finalniente trovar di comune, questa a appunto la volontà di
chiarezza e d'ordine e di certezza anche nelle opere di bellezza; che per conquistare questa chiarezza e certezza non basta abbandonarsi a
parlare con abbondanza e facondia, ma occorre sorvegliarsi e scegliere e comporre, e trovare insomma uno stile.
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Cosi nel 1919 a Torino apparve la sua tela "Contadini al sole". Dopo le voluttuose delicatezze e svenevolezze della pittura di Felice Carena
nella Mostra veneziana nel 1912, dopo l'ostentata rapidità del suo pennelleggiare nelle nature morte e nel ritratto che egli aveva esposti a
Roma nel 1916, la novità di questa squadrata semplicitá, di questa ricerca d'una linea e d'un equilibrio tra pieni e vuoti, tra ombra e sole,
fu da taluni chiamata un'altra apostasia, tutt'altro capriccio dell'instabile Carena; ma chi conosceva l'uomo e aveva fede in lui, vide in
quella novità il segno che finalmente e faticosamente il pittore entrava nella sua maturità. Ancora la pennellata rotta, a tratti paralleli e
minuti, come di chi ombreggi a matita o a carbone, dava a quella composizione un che d'improvvisato, alle persone e alle cose rappresentate un
che d'uguale, come se all'artista esse fossero, fuor che nel colore, indifferenti.
E si venne ai "Contadini" del 1920, esposti nel 1921 a Roma. Qui la pennellata é piu prudente e costruttiva; il colore più pudico, anzi
castigato in tonalità brune e grige e nere, osservate con pazienza, distribuite con prudenza; le sagome sono delineate con una semplicità
definita, anche troppo secca e stagliata; le quattro figure delle donne ammantate e del contadino seduto e la gran tenda bianca sul fondo,
disposte con una volontà di comporre per la prima volta netta ed evidente. Vi si sentiva anche uno studio d'affreschi primitivi, tra Giotto e
Piero, ancora esterno e, direi, sillabato che poteva, alla lunga, più infastidire che convincere. Più libero e d'un sentimento pia comunicativo
era il quadro del "Porcaro" ammantellato che appoggiandosi a un nudo tronco guarda le sue chiuse brulle montagne. Fu esposto a Venezia, l'anno
scorso, accanto alla "Quiete".
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Il passo dai "Contadini" e dal "Porcaro" a questa "Quiete" è stato grande: inaspettato solo per chi non badava alla meditata lentezza con cui
il Carena s'era messo a camminare su questa via del quadro finalmente pieno e compinto, richiamando in uso le sue qualità di pittore, una ad una,
e pur domandole ed affinandole.
All'aperto, sul limitare d'un boschetto attorno a un nudo di donna, seduta, vista di spalle, si svolge in tondo la scena : a sinistra, anche
seduti, una giovane contadina e un pastorello col cappello incoronato di fiori, nelle mani uno zufolo; a destra, di lá da una coperta gialla
tesa tra due rami, due giovani nude, curve sull'acqua; nel primo piano fiori, frutta, un boccale, una bottiglia, una testa, dipinte con una
pittura ricca grassa lucida succosa quale non si vedeva più da anni. Tutto il quadro, a cominciare dal nudo centrale che fa da perno alla
composizione lineare e che regola il tno della composizione cromatica, a dipinto con questa gioia matura e sensuale, in una luce tranquilla,
diffusa, senza ombre, che vien dal dietro allo spettatore e avvolge tutta la scena fino al placido cielo lontano striato da bianche nubi
parallele.
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In questo quadro Felice Carena ha davvero finalmente intravveduto la sua "quiete". V'è quella pienezza e ricchezza, anzi abbondanza nel tema e
nella fattura che propria della pittura ad olio dal sommo del Cinquecento in avanti. Tra i tanti bozzetti distesi a quadro e le tante sbilenche
astruserie delle esposizioni d'adesso, ci si trova finalmente davanti a un pittore che ha saputo limpidamente e felicemente e italianamente
esprimere, disegnando e dipingendo, tutto quel che si proponeva di dire; a un pittore la cui opera senti che durerà senza stancarti.
Eppure a questo "dipinto" davvero dipinto, manca ancora qualcosa. Prima di tutto in quel torso di donna posto nel centro del quadro si sente
ancora il problema difficile che questo pittore s'è volontariamente imposto. L' ha risolto; ma era un problema ancora di tecnica. E nonostante
la bellezza dei particolari, dalle "nature morte" del primo piano alle figure del pastore e del la contadinella, anzi a quello stesso nudo cosi
carnoso e dorato, resta nel quadro, per l'evidenza di quel problema, direi di quella scommessa, qualcosa d'esercizio accademico: esercizio d'un
maestro e d'un virtuoso, ma esercizio. E questo disagio aumenta pel fatto che l'azione di ciascuna di queste cinque figure e isolata: fanno
insieme un bel quadro, ma ognuna dalle figure pensa a se stessa. Ecco l'ultimo scoglio che Felice Carena deve evitare per giungere in porto :
la partita del "soggetto".
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I cosi detti giovani hanno paura di dare al loro quadro un soggetto definito; un soggetto in cui convergano tutti gli elementi del dipinto,
anche l'attenzione e magari 1'emozione dello spettatore : un soggetto che sia l'armatura logica o patetica del quadro, la ragione stessa del
quadro alla quale sieno armoniosamente sottomesse la composizione, la costruzione, il colore, l'intonazione, le figure, lo sfondo.
Non chiediamo l'aneddoto comico o drammatico del quadretto di genere o del telone storico. Non osiamo nemmeno chiedere l'emozione religiosa,
serena e appassionata, dei nostri quadri di soggetto sacro che da Duccio al Tiepolo, finchè il gelo pagano dei pittori neoclassici e poi la
trivialità fotografica dei pittori veristi non allontanò la Chiesa dalla buona pittura e le buone pitture dalle chiese, occupano la più gran
parte della storia dell'arte nostra. Prendiamo, ad esempio, due tele di Tiziano: una che ricorda anche pel terra, acqua, bosco, una nuda,
un pastore, questa del Carena, la "Ninfa e il pastore" del Museo di Vienna; e un'altra del Museo del Prado, "Venere e Adone", dove anche è
dipinto di schiena uno dei più bei nudi femminili della pittura veneziana. Questi soggetti non vogliono commuovere nessuno. Sono soggetti
piacevoli, amorosi e sereni: semplici occasioni logiche per un bel dipinto. Eppure tutto vi si accorda, tutto vi converge al soggetto, con tanta
unità nell'istrumentazione che il quadro ti resta nella memoria intero, e a chiudere gli occhi e a volerlo ricordare sembra che un particolare
ti suggerisca subito l'altro.
A questa unità vorremmo che Felice Carena tendesse, nella pienezza, com'ê, della sua forza, nella ormai sicura e deliberata ricerca
dell'originalità e dello stile. Se pensassimo di mescolare a questa nostra critica giudizi morali, diremmo che la coscienza di questo piemontese
non si acquieterà nell'arte finchè egli non riuscirá a darle anche il vigore e la luce d'un sentimento potente e sincero, più su di sifatti
esercizi di bella pittura. Ma andremmo troppo lontano. Ci basti dire che noi guardando un quadro di lui vogliamo sentire impegno di lui uomo,
non solo di lui pittore, nell'opera sua; che noi speriamo di potere un giorno ammirare una pittura di lui che sia un'eco non solo della sua
fantasia pittorica, ma anche dell'anima suia, perchè l'arte o è tutto l'uomo che la crea o rischia d'essere niente. Come ammonivano i vecchi
maestri di retorica, lo stile non è il "Bello stile". Felice Carena, solo o quasi tra i pittori della sua eta, e intanto giunto al bello stile.
Per giungere allo stile, a un suo stile, deve andare più in fondo: la dove l'artista, da rimatore, diventa poeta.
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UGO OJETTI
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