Proprio in questi giorni a Venezia si è inaugurata la nona
esposizione internazionale d'arte, che segue di pochissimi
mesi la chiusura dell'ottava e che, per virtù di
organizzazione e per intrinseco valore delle opere inviate
sulla laguna da ogni parte del mondo civile, appare non meno
importante di tutte le precedenti. E mentre Bruxelles e
Buenos Aires preparano mostre le quali attirano le migliori
energie con la speranza di larghi guadagni e di onori, Roma,
accingendosi a celebrare una festa patriottica che è ad un
tempo una glorificazione della civiltà e dello spirito
umano, non trova di meglio che raccogliere fra le sue mura
ciò che dello spirito è la più alta manifestazione e il più
nobile conforto. In questo nuovo fremito di rinascenza che
ci scuote e ci desta, in questa rinnovata primavera italica,
in quest'impeto di vita che tutti ci possiede, in questo
sogno di bellezza che feconda il nostro pensiero e il nostro
sentimento, la vecchia Società degli amatori e cultori di
belle arti ha aperta nelle sale del palazzo di via
Nazionale la sua ottantesima esposizione di quadri e di
sculture.
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Vecchia di anni, ma ringiovanita nei propositi, da quando la
fede di pochi uomini intese che una esposizione non vive di
facili vittorie, ma deve essere centro di progresso, di
emulazione ardente, di educazione civile e, rompendo
risolutamente la vergognosa tradizione delle compiacenze e
del disordine, lottando con l'indifferenza delle autorità,
con l'influenza delle camarille, con la diffidenza del
pubblico, con le difficoltà finanziarie più aspre, seppe
raccogliere le migliori energie, disciplinandone gli sforzi
prima disuniti.
Contro questa organizzazione, la quale prima di ogni altra
cosa si è proposta di bandire le abborracciature del
dilettantismo e le abili trappole tese dal mestiere agli
occhi e alla borsa degli inesperti, cerca di muover guerra
lo scontento dei disillusi, ma ogni armeggìo è destinato a
cadere nel vuoto, perchè, fortunatamente, indietro non si
ritorna. Il giorno in cui il pubblico si persuadesse che
l'esposizione è una specie di fiera e un concorso di
meschine vanità, tornerebbe a disinteressarsene
completamente. Ed un'esposizione che viva da sè, come una
efflorescenza sporadica, estranea al giudizio della
moltitudine, fuori della partecipazione comune, è
irrimediabilmente destinata a morire.
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Io non so se per virtù singolare di opere esposte la mostra
attuale possa dirsi più importante delle altre che l'hanno
preceduta in questi ultimi anni, i quali hanno consacrato il
successo della iniziativa della Società di amatori e
cultori. Certo l'insieme delle sale si presenta più
arioso e più decoroso, per effetto sopra tutto del fregio
semplice ed elegante che fu ideato da Galileo Chini e che
ricorre intorno intorno al sommo delle pareti. In questo
modo non solo l'esposizione si è arricchita di una
decorazione sobria e sempre bene intonata, ma il velario di
tutti gli ambienti, di cui sempre fu lamentata la bassezza,
ha potuto essere alzato di circa un metro e mezzo.
Nelle ventinove sale di cui la mostra si compone, pur dopo
la selezione accurata e severa compiuta dal comitato di
accettazione, hanno potuto trovar posto settecento trentuna
opere, in cui varie fra le più notevoli tendenze che tengono
il campo dell'arte internazionale appariscono rappresentate.
Il vistoso premio Muller ha, come sempre, richiamata
un'eletta accolta di pittori tedeschi, fra i quali vengono
in primissima linea Ludwig Dettmann, Carl Friedrik Frieseke,
Hans Wagner e Carlo Otto.
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L'arte poderosa del Dettmann ha saputo trarre ottimi effetti
da un soggetto che si prestava assai bene a metterne in
valore tutte le qualità di sintesi e di vigore. La
Tempesta autunnale nel villaggio e quadro di grande
effetto, dipinto con molta sapienza; sopra le case chiuse,
tra gli alberi a cui il vento strappa rabbiosamente le
foglie, è diffuso veramente il senso dell'aspettazione:
l'aspettazione dell'uragano minacciato dalle nubi che
salgono, salgono come spire immani, si lacerano in
brandelli, si ricompongono, combattono, si accavallano, si
allargano paurosamente per il cielo.
Fine, poetico, signorile, Carl Friedrick Frieseke si ispira
a visioni tenui, che ingentilisce con una straordinaria
delicatezza di colorito. Egli dipinge in sordina,
nobilitando le forme che tocca, diffondendo mille visioni
stanche in quel suo Fiume, sul quale una giovinetta
naviga silenziosamente verso il sogno e verso l'infinito. Di
grande evidenza è l'angolo di Villa Borghese che Hans
Wagner ha saputo dipingere con una tecnica tanto sobria e
pur tanto efficace. Sotto i pini, che si levano immobili nel
chiarore, l'aria circola liberamente, ed ogni rapporto di
luce e d'ombra, di piani e di distanze è reso semplice con
precisione mirabile.
Carlo Otto, infine, con la Famiglia, raccolta nel
giardino intorno alla tavola da the, dimostra che è
possibile ottenere potenti effetti di luce senza acrobatismi
e bizzarrie di tecniche artificiose, e contende forse al
norvegese Halfdan Strom il vanto di aver dato
all'esposizione le migliori pitture di sole.
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Tra gli italiani ecco Arturo Noci con un ritratto di bimba,
arioso, distinto, ottimamente disegnato e con due visioni di
Burano che nelle sfumature delicate rispecchiano la divina
malinconia della laguna, ecco Felice Casorati con le sue
vecchiette argute e con quella Cugina che è ad un
tempo un bel documento di bravura pittorica e un piccolo
capolavoro d'intuizione psicologica, ecco Bartolomeo Bezzi
con un grazioso ritratto di bambina e con i suoi paesaggi
solidi e suggestivi, e Pietro Brenda con un mare agitato dal
libeccio, mobile, pauroso, che perde nell'infinito la sua
solitudine plumbea, e Maurizio Barricelli con tre ritratti
dalla fattura semplice e larga, rivelazioni di anime, e
Guglielmo Ciardi che traduce le armonie del sentimento in
armonie di luce e di colore, e Camillo Innocenti con le sue
figure femminili elegantissime, ma troppo aeree, troppo
incorporee, e con una Caccia alla volpe piena di
movimento vibrante, di richiami, di guizzi di code, di
abbaiamenti il cui eco si ripercuote e si spegne per le
lontananze della campagna, ecco Enrico Coleman apparirci
ringiovanito per virtù di una ispirazione ora più di prima
calda e sincera, e Corinna Modigliani con un gruppo di bimbi
vivace e luminoso, e Ida Bidoli Salvagnini con una mite
figura di giovinetta, e Pieretto Bianco con un angolo di
laguna che riflette l'infinita tristezza di una giornata
grigia, e Paolo Ferretti con un Mattino sonante di
trilli e di vento, e Onorato Carlandi con l'indicibile
poesia delle rovine e della campagna romana tragica,
desolata, solenne, e Umberto Coromaldi rivelatosi a un
tratto animalista assolutamente eccezionale con una serie di
cani dallo sguardo bonario e pensoso, veri filosofi, di cui
l'artista ha saputo cogliere e rendere con insuperabile
bravura non solo la vita esteriore, ma le varietà del tipo e
degli istinti.
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La mostra di un gruppo di sculture di Giuseppe Romagnoli
poco aggiunge alla fama del giovane scultore bolognese.
Ricercatore paziente, elegante compositore, egli possiede
tutte le qualità plastiche atte a rendere il vero con
suggestiva evidenza. Ma un'arte la quale tenti di sfruttare
soltanto le risorse della forma finisce con L'intristire, e
i delicati nudi femminili del Romagnoli, corretti,
raffinati, seducenti, i suoi ritratti ariosi, ma freddi, non
bastano a farci dimenticare il Salvo e le Anime
umane esposte a Venezia nel 1901, opere in cui l'intento
psicologico prevaleva su quello formale e si rivelava con
l'espressione forse un poco uniforme, ma sempre commovente,
di un sentimento che conserva la virtù di centuplicare il
nostro affetto, di farci provare più vivo il bisogno
dell'espansione, di una parola cara, di un cuore pronto al
conforto, di un'anima in cui poter riposare.
A buon conto, la rappresentazione dell'amor materno, che ha
ispirato al Romagnoli, oltre le due opere ricordate, anche
Terra Mater, dalla Galleria internazionale di arte moderna della città di
Venezia inviata alla mostra di Roma, deve essere
particolarmente gradita agli scultori. Ce ne offre un altro
esempio Adolfo Apolloni con uno dei suoi gruppi armoniosi,
dalla fattura aristocratica, nei quali l'ispirazione
classica apparisce interpretata e tradotta con novità di
sentimento. Una madre sorride ad un suo piccino, fissandolo
con amore intenso, ed è in quel sorriso una bontà profonda,
che affascina e commuove.
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Vicino ad un artista insigne, tra le opere dei giovani che
più largamente e sicuramente lasciano sperare di loro, mi
piace di ricordare qui un ottimo studio di testa Pier Enrico
Astorri, la Spiga di Amleto Cataldi, e, sopratutto,
tre bronzi e una piccola terracotta di Nicola Dantino.
Scultore ad un tempo vigoroso e delicato, capace di
ravvivare una bella forma con un profondo sentimento,
lavoratore silenzioso, ma instancabile, il Dantino espone un
nudino di donna di rara solidità e un ritratto di bambino
che, per la vivacità dell'espressione e per la modellatura
franca, nervosa, efficacissima, è una delle sculture a buon
diritto più aminirate della mostra. Ma tutta la sua fantasia
arguta e bonaria, tutto il suo acuto spirito di osservazione
appariscono nella Processione, cinque figurine di
bimbi, nelle quali il sentimento del patetico si associa ad
una comicità irresistibile.
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